Cos’hanno in comune Quer pasticciaccio brutto de via Merulana (1957), il celebre romanzo di Gadda, e L’avventura (1960), primo capitolo della “trilogia esistenziale o dell’incomunicabilità” di Antonioni? In entrambi è presente un giallo senza soluzione, il ribaltamento di ogni elementare indagine poliziesca, che secondo Sciascia, in Breve storia del romanzo poliziesco, consta di quattro fasi (sorta di regola aurea): «il porsi del problema; la presentazione degli indizi essenziali alla sua soluzione; lo sviluppo dell’inchiesta fino alla soluzione; la discussione sugli indizi in quanto prove e la dimostrazione che attraverso quelle prove si arriva alla prova definitiva della colpevolezza di uno dei personaggi del libro». Il romanzo di Gadda rimane incompiuto – vani risulteranno i tentativi successivi dell’autore di scrivere la conclusione – poiché l’indagine non giunge alla consolatoria e rassicurante soluzione, che il lettore pazientemente aspetta gli venga imboccata per mano dell’investigatore di turno. Il delitto rimane insoluto, cosa non del tutto inverosimile, perché la luce della verità non illumina soltanto un colpevole e non è possibile sbrogliare la matassa e venire a capo del “pasticciaccio” individuando una sola causa. Piuttosto il dottor Ingravallo si trova di fronte a una concatenazione inestricabile di cause, che non porta necessariamente e inequivocabilmente a un colpevole. Non per niente, per sfuggire a questa indeterminatezza e incompiutezza, Gadda proseguì invece l’indagine nell’adattamento cinematografico (il mai realizzato Il palazzo degli ori) fino all’individuazione del reo. E anche la più che apprezzabile versione per lo schermo di Pietro Germi (Un maledetto imbroglio, 1959) non si esime dal prospettare una soluzione.
Nel film di Antonioni l’elemento giallo invece è inaspettatamente introdotto, come rapidamente accantonato, dall’improvvisa scomparsa di uno dei protagonisti, Anna. Il suo dileguarsi viene vissuto e raccontato con distacco, le sue ricerche vengono presto condotte stancamente, come se dopotutto non avesse tanta importanza la ragione per la quale sia sparita nel nulla né forse il suo ritrovamento, nemmeno o soprattutto ai fini della narrazione. Nessuna pista viene azzardata, nessuna motivazione fornita, soltanto il suicidio viene escluso dal padre, ma in virtù di un labile indizio, all’apparenza quasi ridicolo: tra i libri che stava leggendo vi è la Bibbia; è come un personaggio secondario di cui si può fare volentieri a meno: uscirà di scena in sordina e nessuno rimpiangerà la sua mancanza, anzi la sua scomparsa è funzionale alla storia, allo sviluppo degli eventi, è necessaria. Sandro (Gabriele Ferzetti) ne è subito consapevole, a dispetto della ritrosia che Claudia (Monica Vitti) mostra all’idea di prendere il posto della sua amica Anna.
Accusato di essere cinico si difende proprio alludendo all’assenza della donna: «Se Anna fosse qui potrei capire i tuoi scrupoli, ma non c’è». La sua assenza però pesa su di loro per tutto il corso del film; è un’assenza ingombrante, che scatena il turbine della passione, ma allo stesso tempo la frena e la incrina. Fa riemergere scrupoli mal sopiti, adombramenti e ridicoli pudori. Come quando Claudia va a nascondersi per viltà in un negozio di vernici per evitare di ritrovarsi di nuovo di fronte ad Anna, o quando subito dopo l’assilla un fastidioso pensiero, lei che nel sostituirsi all’amica vorrebbe anche essere amata in modo esclusivo da Sandro («Quando penso che le stesse cose le avrai dette ad Anna chissà quante volte»). In entrambi i casi, dunque, emerge la visione di una realtà caotica, non facilmente comprensibile o confinabile in un meccanismo prestabilito, in cui qualunque indagine è fallimentare, insufficiente o persino inutile nel districare il groviglio di oscure trame e sentimenti contrastanti che dominano l’agire umano.