Che orrore la normalità! Da “Nudo di famiglia” a “Cattedrale”
Una sottile angoscia permea le scritture di Gaia Manzini e di Raymond Carver, celeberrimo padre del minimalismo americano quest’ultimo, esordiente italiana da seguire con attenzione la prima. Continenti ed epoche diverse a dividerli, uno sguardo attento ai piccoli traumi della quotidianità, alle esistenze mediocri della gente comune, alle stolide ipocrisie che reggono l’illusione della serenità, ad accomunarli.
Nei quindici racconti di Nudo di famiglia (non tutti, va detto, allo stesso livello) Gaia Manzini, classe 1974, realizza un mosaico dei paradossi che rendono la dimensione domestica il luogo non dell’incontro, ma della costante tensione, e in cui a prevalere sono i silenzi:
“Forse io e Lisa non abbiamo mai parlato veramente. La parola non serve solo a descrivere la realtà, ma anche a spezzarla” (La manovra di Heimlich)
“Aspetto che parli, che mi rivolga una delle sue domande vaghe che valgono come un abbraccio caldo in cui posso metterci tutto: gioia, dolore, silenzio” (Lividi)
“Marina e Lorenzo hanno tutto da dirsi, troppo, così tra loro c’è un silenzio cospiratore, così largo che lo senti premere con violenza per spaccare argini” (Il gioco della torre)
“Le parole le stanno dentro congelate, non sono ganci per aggrapparsi al mondo” (Senza pieghe)
(Gaia Manzini, Nudo di famiglia, Galleria Fandango)
Per la Manzini c’è una sorta di immobilismo ottuso, di impossibilità a cambiare, a rinnovarsi e dunque a far proprie le istanze altrui, ecco allora che la vicinanza forzata genera attrito; le dinamiche egoistiche che regolano i rapporti sociali vengono replicate e amplificate nell’ambito famigliare. Forse proprio tale insistenza nel generalizzare un disagio rappresenta uno dei limiti della raccolta, insieme alla frammentazione talvolta eccessiva delle sequenze narrative. L’attendiamo con grande aspettativa alla prossima prova letteraria, a quanto pare imminente…
Raymond Carver (1938-1998) allarga gli orizzonti alle relazioni sociali nel loro complesso e in Cattedrale del 1983 (l’ultima sua raccolta di racconti) nei brandelli di esistenze lacerate che descrive giunge a instillare una mesta fiducia, un caparbio vitalismo; per cui anche i colpevoli possono redimersi e i vuoti colmarsi, tanto che nel superbo brano che dà il titolo all’opera un uomo insofferente verso l’amico cieco della moglie può giungere a immedesimarsi in lui e a cogliere aspetti imponderati dell’esistere.
Ma anche in Carver sono la nausea e l’amarezza le sensazioni dominanti, che il suo stile scabro e greve riesce a riprodurre nel lettore, oltre che sulla pagina, e ancora una volta è la famiglia il più immediato punto d’osservazione da cui scoprire (o condannare?) l’uomo moderno.
“Da dove si trovava in cucina, con la borsa ancora in mano, riusciva a vedere di là in soggiorno lo schienale del divano e lo schermo del televisore. C’erano delle figure in movimento. I piedi nudi del marito spuntavano a un’estremità del divano. All’estremità opposta, sul cuscino appoggiato al bracciolo, scorgeva un pezzetto di testa. Non si muoveva per niente. Forse dormiva o forse no e magari non l’aveva neanche sentita rientrare. Ma lei decise che la cosa non faceva la benché minima differenza.” (Conservazione in: Raymond Carver, Cattedrale, minimum fax)