Articolo e intervista di Giovanni Agnoloni
Con la chitarra ho sempre avuto un rapporto tormentato. Il mio professore di Musica, alle medie, mi disse che avevo talento e che mi avrebbe giovato prendere lezioni private. Lo feci. Imparai. Ma c’era una cosa che mi dava noia. Tutto quell’insieme di regole in una pratica che, a mio avviso, era principalmente una questione d’intuito. Però proseguii per tre anni e feci significativi progressi. Poi l’abbandonai, una volta iniziato il massacrante liceo classico. L’avrei ripresa solo all’inizio dell’università, quando la portai avanti praticamente da autodidatta.
Infine iniziai a scrivere e capii che era quella la mia strada.
Poco più di una settimana fa, andando a un concerto di Ganesh Del Vescovo, con musiche da lui composte, ho capito di aver trovato un artista che nella musica ha realizzato quello che io sto cercando di fare nella scrittura. Imprimere emozioni con ogni tocco, evocare a ogni nota immagini e percezioni che nel rumore del mondo di oggi tendono a sfuggire, anche se sono sempre lì.
Questo musicista e compositore è, in effetti, nato come autodidatta, sebbene poi abbia condotto studi formali al Conservatorio “Cherubini” di Firenze, sotto la guida sensibile e raffinata del Maestro Alvaro Company.
Nella sua musica Del Vescovo riesce ad imprimere la sua misura di appartenenza al mondo ed alla sua anima, con forti vibrazioni che promanano dai luoghi (in particolare orientali) da lui visitati. India e Giappone sono stati al centro del concerto ricordato, tenutosi nella Pieve di Sant’Andrea a Cercina, nell’ambito di Chitarrae, una bella manifestazione giunta ormai alla VI edizione, ed organizzata e diretta da Sara De Santis, anche lei chitarrista, intervenuta in occasione della ‘passeggiata musicale’ che si è tenuta due giorni dopo presso Villa Pozzolini, a Bivigliano.
Ma torniamo a Ganesh Del Vescovo (che in occasione di tale manifestazione ha anche incontrato il pubblico per una sessione di domande sul suo rapporto con la musica). I suoi pezzi, dalle sonorità lievi e avvolgenti, esprimono l’essenza di esperienze di viaggio nello spazio, ma soprattutto nell’anima. Attingono a un fondo di energia-spirito che attraversa i luoghi e il tempo, trasmettendo ogni volta sensazioni che risuonano immediatamente con chi ascolta e vede. Non lo dico a caso. La sua è una musica che non è improprio dire che vada vista. Non solo per il fascino del movimento delle mani sulle corde e sulla tastiera dello strumento, che c’è sempre, chiunque sia il musicista che tiene il concerto. È per la profonda consapevolezza del suono e dell’atmosfera evocata che Del Vescovo esprime con la sua postura, che paradossalmente tende a renderlo quasi evanescente, per lasciar posto alle note e alle immagini che esse suggeriscono.
Lui, come racconta nel suo sito (v. qui), si sente un ‘tramite’ verso qualcosa di altro: di oltre, direi. È la coscienza della sostanza profondamente spirituale della musica, che ha scoperto da ragazzo, quasi ricevendo un’illuminazione, grazie a una chitarra con una corda sola che una sua zia aveva in casa. Come se le altre dovesse aggiungercele lui (come poi in effetti avrebbe fatto), col suo estro e la sua ispirazione. Forse il tutto risale ai tempi dell’infanzia, quando scorrazzava nelle campagne della provincia di Teramo, di cui è originario, al periodo in cui ha girovagato con una roulotte, rivelando uno spirito gitano, che, al vederlo oggi, non gli riconoscerebbe. Perché il suo non è un look, ma un modo di porsi davanti alla vita che nasce da dentro. Dove attecchisce e germina l’Eterno. E la sua musica ne è tramite (oggi è infatti suonata in tutto il mondo: due interpreti ne sono il giapponese Kazuhito Yamashita – e il fiorentino Leonardo Masi – del quale abbiamo parlato su questo blog, ma nelle vesti di polonista).
Ho incontrato il Maestro Del Vescovo nel suo studio fiorentino, dove ho potuto vedere da vicino i suoi strumenti, e in particolare, oltre alla chitarra tradizionale a sei corde (ne ha pure una a otto), la chitarra chikari (una chitarra classica con due sottili corde metalliche aggiunte alla sesta, che suonano a vuoto una nota diversa a seconda di dove viene collocato un ponticello lungo la tastiera – v. qui) e la chitarra sarod (che è appunto l’incrocio tra una chitarra classica e un sarod, affascinante strumento indiano con venticinque corde metalliche su una tastiera anch’essa di metallo, che emettono suono solo venendo pigiate con l’unghia – v. qui e qui). Con questi strumenti, Ganesh Del Vescovo è riuscito a sviluppare – e tuttora sviluppa, seguendo l’ispirazione che gli viene dagli strumenti stessi – le sue tecniche in gran parte innovative, sia pur nel rispetto dei canoni della musica classica occidentale (grandioso l’effetto dell’applicazione di un diapason alla tastiera a mo’ di ponticello, o quello dell’oscillazione della chitarra nell’esecuzione di determinate note, che provoca un’ondulazione del suono del tutto particolare).
- Io partirei dal tema del suo rapporto con la musica in relazione all’ispirazione. Il modo in cui è nato il suo amore per la chitarra, che sembra avere un significato spirituale.
Per me è stato molto importante capire dopo quel che mi era successo all’inizio. Quando conobbi per caso la chitarra con una corda sola dei miei zii, iniziai a tirarci fuori delle note e fui affascinato dal suo suono. Passavo nottate intere a tirarne fuori dei suoni. Sono state fondamentali le vibrazioni della musica, che mi portavano a vivere stati d’animo molto elevati. Per questo ho scelto di fare musica; non per fare una carriera da musicista. Tra l’altro, venivo dalla provincia di Teramo, un luogo molto isolato (e bellissimo), dove al tempo la musica classica quasi non si sapeva cosa fosse. Poi tornai al paese con la chitarra a una corda, e iniziai ad aggiungere le altre.
- Come avvenne, dopo? Incontrò il Maestro Company, giusto?
Andò così. Al mio paese, col tempo, avevo elaborato una tecnica tutta mia, e quello che suonava piaceva alla gente. Un giorno il direttore (o forse il segretario) dell’Accademia Musicale di Pescara passò dal paese e mi sentì suonare. Gli piacque la mia musica e mi convinse ad andare a Pescara, dove incontrai Alvaro Company. Lui mi chiese cosa suonassi e io, innocentemente, risposi: “Ma, vediamo un po’, di solito faccio quello che mi viene”. Mi chiese se avessi studiato composizione, ma io non sapevo neanche che volesse dire. Non scrivevo musica, allora. Iniziai a improvvisare, e lui prese a girarmi intorno e a guardarmi con grande attenzione. Rimase stupito al rendersi conto che stavo veramente improvvisando. Insistette allora per farmi andare a Firenze, ché mi avrebbe anche dato lezioni gratuite. In seguito ci andai, a Firenze, e studiai chitarra al Conservatorio “Cherubini”. Arrivai col mio strumento tutto rotto e finii per classificarmi primo in graduatoria, anche se a me il posto in classifica non è che interessasse molto. La cosa più importante, fin dal periodo delle mie prime improvvisazioni, era che la musica mi dava degli stati di pace interiore che non ritrovavo da nessun’altra parte, esternamente. E ancor oggi li trovo solo nella musica. Così, agli inizi mi ero fatto l’idea che tutti i musicisti, più andavano avanti, più crescessero in queste sensazioni. Venendo a Firenze, invece, mi accorsi che non era proprio così. Competizione esasperata, accademia all’ennesima potenza. Non era quello che veramente volevo.
- E questo si riallaccia alla sua ispirazione legata all’Oriente.
Infatti. Seguii tutti i miei studi di Conservatorio pur portando avanti le mie ricerche autonome. Conobbi una famiglia che praticava yoga, e venni a sapere che quello che cercavo nella musica loro lo trovavano nello yoga. Così mi dedicai, oltre che allo yoga, alla musica indiana. Anche se è vero che io faccio musica indiana solo quando suono strumenti tradizionali indiani (anche il tabla, tradizionale strumento indiano a percussione – v. qui). Quando realizzai questa possibilità, capii che la musica è un mezzo per capire chi siamo. Anche i concerti non li cerco affannosamente. Certo, se vengo invitato porto volentieri in giro la mia musica. Però non è questo che conta davvero. È la ricerca di cui parlavo.
- Nel concerto di Cercina mi ha colpito molto il pezzo ispirato al Giappone. Qui ho colto, forse ancor più che nei pezzi d’ispirazione indiana, la sua capacità di trasportare nella dimensione del luogo a cui la musica si ispira. Allora mi sono posto la domanda se questo sia prevalentemente frutto della sua tecnica personale o della sua compenetrazione profonda con l’ambiente, nel momento in cui ha composto il pezzo.
Il pezzo che lei ha sentito, Ricordi di Nagasaki, in realtà non si ispira alla musica giapponese, anche se c’è un piccolo tema che ricorda Sakura. Però non l’ho fatto apposta. Me sono reso conto dopo. In realtà non scrivo mai musica pensando a un luogo. Non sono (almeno consciamente) ispirato da un luogo. Posso scrivere un pezzo lentissimo mentre sono in mezzo al caos, o uno animato stando immerso nella natura. Alla radice del pezzo sta sempre un atteggiamento interiore. Per questo il titolo lo scelgo sempre dopo.
- Nella sua tecnica mi colpisce in particolare il suo tocco magnetico, che mi coinvolge completamente, come spettatore. Che cosa contraddistingue il suo approccio alle corde? Una profonda integrazione con il respiro?
In realtà il suono è l’ultima cosa che avviene. Certo, per la parte tecnica ho avuto il grande esempio di Alvaro Company, che ha imperniato gran parte della sua ricerca sul suono e sulla respirazione. Però non si può imparare il suono ‘facendo le cose in un certo modo’. Il suono non nasce da un movimento ‘fatto bene’, ma da un atteggiamento interiore. Quando abbiamo un’idea musicale, la mano può iniziare a muoversi da sé in modo strano, insolito. Quindi non c’è una posizione giusta o una sbagliata. La tecnica ‘giusta’ si elabora a partire da un atteggiamento interiore, che genera spontaneamente un modo di muovere le mani. Partendo da qui si può costruire una tecnica.
- Quindi, il suo implicito suggerimento è che qualunque studio formale non deve ingabbiare la spontaneità d’ispirazione, che è l’elemento determinante.
Sì, però non confondiamoci. La spontaneità, o meglio l’intuizione, conta, ma dev’essere corredata da una grande disciplina. Senza di questa le cose non vengono. E la disciplina, e quindi il metodo di studio, è anch’essa espressione della personalità. Io mi sono creato il mio metodo, ma ad un allievo non lo impongo per forza. Ci sono allievi che recepiscono di più se spiego loro tutto, in modo intellettuale. Altri, invece, apprendono in modo intuitivo, vedendomi suonare. Questa è la trasmissione diretta, che è quella migliore. In questo caso, si può anche insegnare senza parlare assolutamente. È una trasmissione non verbale, la più importante.
- Il discorso dell’interiorità ispira dunque la sua musica nella sua interezza.
Sì, anche se diciamo che la mia musica si può complessivamente dividere in tre parti: la musica d’ispirazione orientale, quella non di ispirazione orientale (magari evocativa dell’oriente, ma non direttamente ispirata alla musica tradizionale indiana), e infine le trascrizioni di pezzi composti per altri strumenti (per esempio da Frescobaldi, Mozart, Schubert, Verdi). Comunque, qualunque cosa scriva (a parte le trascrizioni), la mia ricerca non si basa sullo studio di altri autori a cui mi sia coscientemente ispirato. Tutto, certo, concorre, ma a livello inconscio, perché la ricerca è guidata da un’ispirazione di natura interiore.