Magazine Diario personale
Ogni giorno sono spinto a dire TU al mio amico più vicino, e mi trovo inadeguato al compito. Qualcuno mi fa una domanda ma lo sforzo per strapparmi una risposta è troppo grande, e, un sorriso incapace mi trema sulla faccia, mormoro qualcosa di inadeguato e entrambi moriamo un po'. Sono intrappolato da quello che sono, da quello che sono diventato, da quello che diventerò se non ne esco fuori. (Julian Beck, La mia vita nel Teatro)
È passato un anno da quando ad Amelia, per uno degli incontri letterari organizzati dal collettivo “donne di Amelia” e dalla scrittrice Sandra Petrignani, si rifletteva assieme a Marco Lodoli a proposito di linguaggi e di giovani. In un tempo non troppo lontano, che io ricordo bene, anche se di riflesso, il Beat72, storico teatro romano nato dal coraggio di Ulisse Benedetti, organizzò un happening di poesia di ben sedici serate –una kermesse impensabile oggi- e che coinvolgeva poeti italiani e stranieri, gruppi di musica underground e una quantità oceanica di persone –fino a trentamila presenze. Per quello che a ragione si poteva chiamare un “evento”, da tutta Italia giunsero giovani, intellettuali e quella che un tempo si chiamava intelligencija, termine russo oggi in disuso, e che indicava un gruppo sociale di persone “rappresentative” e che svolgevano un’attività intellettuale.
Parliamo di un tempo in cui di tecnologie nemmeno si parlava e i giornali dedicavano pagine intere al teatro d’avanguardia, quando il Living Theatre inneggiava alla rivolta contro il “sistema” e il termine “gossip” ancora non era stato esportato, quando i politici in bianco e nero non erano soltanto icone mediatiche ma veri e propri tecnici del pensiero e dell’ideologia. Non si tenevano omologanti corsi di “public speaking” e ognuno portava in scena la propria personalità. C’era ancora la censura, certo, e il muro di Berlino stava sempre lì, però in piazza ci si baciava e ci si dava del “tu”. Si faceva l’autostop e il leitmotiv di molti ragazzi era un cantilenante “che ce l’hai cento lire” che non li faceva sentire più “sfigati” degli altri, ma parte della società civile. Ci confrontavamo in Piazza e nelle palestre delle scuole, dove il solito fighetto di terzo liceo teneva noi ginnasiali sotto scacco e ci riunivamo in collettivi, dove ogni azione partiva dalla parola e dal rapporto dialettico, dalla comprensione e dalla confutazione di teorie e idee.
Gli organizzatori del Beat72 avevano annunciato per una delle serate inaugurali dello storico happening la presenza di Patty Smith che, invece, non arrivò. Il pubblico, assai più reattivo di oggi, iniziò a lottare per prendere in mano il microfono. Da lì, il caos. Non oso immaginare l’agitazione di Ulisse e il via vai confuso di gente dal palco finché una ragazza prese in mano il microfono e più di un’ora intrattenne il pubblico tra discorsi incoerenti e continui “cioè”. Così, “la ragazza del cioè” passò alla storia come simbolo della mancanza di cultura dei giovani e agli happening di poesia si sostituirono case editrici a pagamento.
Negli anni novanta, si è passati a un intercalare più pragmatico e, tra Renzo e Lucia, l’Illuminismo e Voltaire, tra Dante e Petrarca e la prima guerra mondiale, i giovani hanno iniziato a prender tempo e riempire vuoti di memoria con più sostanziali “praticamente”. In un tempo governato dal marketing e dal dio denaro, ciò che di fatto si possiede pare essere l’unica via d’uscita dall’anonimato. Ciò che sei, passa necessariamente da ciò che hai e che “praticamente” ti rappresenta: l’automobile, la moto, il cellulare ma anche la fidanzata o la trama di un libro. La ricerca di un’immediata, seppure transitoria, versione pratica di ciò che si conosce diventa l’intercalare più frequentato. La conoscenza come pensiero e arricchimento personale non ha più alcun valore e nessuno si accontenta più di guardarlo sul palco Julian Beck tanto che, quando nel 1995 la “Pergola” di Firenze diede forfait a Judith Malina e riuscii a sistemare la Compagnia del Living nella ex SNIA viscosa sulla Prenestina, mi trovai a tu per tu con ragazzi non troppo più giovani di me, che non conoscevano né Beck né l’importanza del teatro politico e di partecipazione: non ha senso parlare di rivoluzione se non la si può tenere in mano o rivenderla a qualcuno.
La deriva, però, la stiamo toccando oggi, quando il giudizio che non corrisponde al nostro viene sdoganato con uno “e sticazzi” che mette fine a qualunque discussione. Come si può, infatti, avere un dialogo con chi fa spallucce e sorridendo ti risponde in questo modo? La generazione “sticazzi” mette fine alla dialettica e al bagaglio culturale di ognuno, è la morte del confronto costruttivo e la vittoria di un individualismo di bassa lega che non è quello dell’esaltazione di sé attraverso il talento ma tramite l’insulto. Basta esistere per “essere”. Su twitter ci sono Mr e Miss “sticazzi” che svolazzano tra gli altrui punti di vista, talvolta “rappresentativi”, rispondendo a provocazioni ragionate con un intercalare che nessuno, dotato di un minimo di sale in zucca, non può non ritenere offensivo. Lo “sticazzi” così praticato oggi, mette un punto definitivo al concetto di “società civile” e di democrazia. Il paradigma, ossia una teoria universalmente riconosciuta, è stato sostituito dal gusto personale che non si può né si deve discutere. Poiché l’individuo è diventato centro di se stesso e dell’umanità intera. Ciò che non capisco, che è lontano da me, che non m’interessa o che non corrisponde ai miei gusti viene rimosso nell’angolo degli “sticazzi” dove sicuramente finiranno presto anche Voltaire, l’Illuminismo, Dante, Petrarca e i Promessi Sposi. Il senso di inadeguatezza a una domanda non mette più in discussione la nostra capacità di analisi, ma semplicemente viene messo da parte, così come nessuno si sente morire un po’ di fronte alla propria umana e meravigliosa incapacità, che altro non è che possibilità di crescere.
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