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Gennaretto e l'Ipocrisalide, racconto di Matteo Girardi

Creato il 11 febbraio 2011 da Larazavatteri
Gennaretto e l'Ipocrisalide, racconto di Matteo Girardi
Pubblico un racconto di Matteo Girardi:
GENNARETTO E L’IPOCRISALIDE
Gennaretto era un baldanzoso e testardo adolescente che abitava a Calolziocorte, un piccolo paese spalmato tra le verdeggianti colline della provincia di Como. Egli veniva da un’educazione rigida e piuttosto convenzionale, dove ad ogni azione corrospondeva una reazione e dove tutto era regolato dalla cosiddetta “buon usanza”: “Così non si dice!Così non si fa!E’ meglio dire così!E’ meglio dire colà!Rispondi così!Rispondi colà” erano le eterne filastrocche dei suoi genitori che risuonavano nella sua testa e che non lo abbandonavano mai, come un sigillo indelebile. Ma dentro di sè Gennaretto si sentiva soffocato da tutte queste usanze e rituali, che la vita di tutti i giorni, con gli amici, i parenti e i conoscenti gli imponevia di continuo. Egli sentiva dentro di sè l’ardore di essere se stesso, sentiva la voglia di vivere in un mondo semplice e trasparente.
Quando Gennaretto litigava con i suoi genitori, era solito rifugiarsi nella sua camera da letto, oppure andava sul balcone e si sedeva lì, a godersi il poco movimento che c’era nel suo piccolo mondo rurale. Quel mercoledì però l’attenzione di Gennaretto fu attirata dall’indaffarato trastullare della sua vicina di casa, la signora Clotilde Viganò. La signora Viganò era un’anziana signora, famosa in paese per essere una persona piuttosto scorbutica: era sposata, ma litigò con suo marito e dopo pochi mesi si separarono, aveva due figli ed anch’essi se ne andarono di casa ancora prima di essere maggiorenni. Si diceva che avesse anche un cane, ma anche lui girava voce sembrava avesse fatto armi e bagagli e se ne fosse andato. Quella sera all’imbrunire la signora Viganò stava annaffiando con estrema precisione un piccolo pezzetto di orto, e lo faceva in una maniera talmente chirurgica, che destò la curiosità di Gennaretto. Cosa stava mai coltivando la signora Viganò? Gennaretto corse a prendere il cannocchiale di suo padre e puntando lo strumento al suo giardino, vide dei fiori completamente azzurri, con una forma rotondeggiamente, che sembravano un pezzo di cielo planato sul giardino della signora, e del quale lei si prendeva cura con animo materno. Gennaretto, abbassato il cannocchiale, si sentì pervaso da una forte curiosità, e senza dire niente a nessuno, scese lungo il viale che andava verso la casa della signora Viganò e, con le mani in tasca e fischiettando a vuoto, costeggiò la casa della signora.
Arrivato davanti allo steccato, assicurandosi che non ci fosse nessuno, allungò il collo e con le pupille oscillanti di curiosità, sbirciò da vicino: vide una casa completamente in disordine, non c’era niente di simmetrico, le due sedie a sdraio erano arrugginite e buttate all’aria, l’erba era piuttosto alta ed incolta e secchi vuoti erano lasciati lì da chissà quanto tempo. Ma nel bel mezzo di questa bizzarra opera di architettura, c’era questo piccolo orto curatissimo, e lo splendore di quei fiori. “Gli spioni sono cugini dei ladroni!!!”, si sentì una voce rauca da dietro lo steccato. La signora Viganò, dietro la siepe, rideva profondamente mettendo in imbarazzo Gennaretto: “Scusi, ehm, stavo osservando i suoi fiori........” E lei con voce distaccata: “Entra pure........”. Gennaretto aprì il cancelletto cigolante ed entrò avvicinandosi ai fiori con passo misurato: “Questi sono fiori speciali”, disse la signora, “si chiamano Ipocrisalidi, sono fiori che mi portò un mio prozio dalla Cina prima di sposarmi”. I fiori avevano incredibilmente la forma di un cuore e persino il gambo aveva un colore azzurrognolo. “Vedi, caro ragazzo, questi fiori rinfrancano l’anima: chi ne beve l’infuso, perde il difetto dell’ipocrisia, io ne bevo una tazza ogni pomeriggio”. Gennaretto, incuriosito da tale fatto, chiese gentilmente di poter aver un sacchettino di tali fiori celestiali. La signora borbottando acconsentì, e Gennaretto congedatosi se ne tornò a casa e data l’ora ormai tarda  se ne andò a letto. Ma quella notte non riuscì proprio a dormire, e appena il sole bussò all’orizzonte, Gennaretto si svegliò e preparò l’infuso di ipocrisalidi. Appena pronto ne bevve una buona tazza e, a sua sorpresa, si sentì come avesse capito tutto dalla vita. Nel frattempo si avvicinò il mezzogiorno, quel giorno era un giorno speciale dato che era il suo compleanno, e tutto il parentado si era radunato. Finito il pranzo, sua zia Roberta, che era moglie di un notissimo imprenditore del settore tessile comasco, gli fece un regalo, che lui aprì: era un maglione giallo e verde. Sua madre disse a Gennaretto: “Ringrazia la zia del bel regalo!”. Gennaretto, innarcò le sopracciglia, guardò sua zia diritta negli ocche e le disse: “Con tutti i soldi che hai, avresti potuto regalarmi qualcosa di meglio!!!” Sua madre spaventata sentendo queste parole da Suo figlio gli crebbero i capelli di due centimetri “Ma Gennaretto.......ma che dici.......” Sua zia cambiò l’espressione del volto diecimila volte in poche frazioni di secondo. Gennaretto si alzò dal tavolo e se ne andò con aria indifferente, lasciandosi alle spalle fulmini e saette. Alle due del pomeriggio aveva appuntamento con la sua ragazza, Clara, erano assieme da parecchi mesi, e lui le voleva molto bene. Si incontrarono nel solito bar, in piazza del Municipio, e dopo essersi scambiati i convenevoli e le ultime novità, presero qualcosa da bere, lui un succo al mirtillo e lei una coca cola. Mentre aspettavano di essere serviti, Gennaretto notò come al solito il rossetto marcato della sua ragazza. Qualcosa di grosso stava salendo nella gola di Gennaretto, e quando questo qualcosa arrivò in bocca, ad un certo punto egli esclamò: “Con quel rossetto mi sembri la nipote di Moana Pozzi!” Clara aveva le lacrime agli occhi incredula, e con fare rassegnato e con finta indifferenza se ne andò lasciando Gennaretto solo. Quel qualcosa che aveva in bocca ora stava riscendendo nello stomaco, ma con sapore più amaro. Egli era disperato, non si capacitava di cosa avesse detto di male, si sentiva candido ed innocente. Telefonò allora al suo migliore amico Lucio, che dato lo stato d’animo di Gennaretto, lo incontrò in un bar lì vicino. Appena accomodati ad un tavolino, Lucio voleva sapere cosa era successo. “Ho litigato con Clara”, disse Gennaretto. E Lucio chiese “Come mai?” “Ma niente, le ho fatto una piccolissima osservazione”. Lucio da amico pacioccone e impacciato lo rincuorò fraternamente “Ma dai sai ben che le donne sono tutte uguali!”. Ci fu un attimo di silenzio, poi Gennaretto girò la testa meccanicamente verso Lucio e gli disse: “Ma cosa ne sai tu di donne che l’unica donna che hai baciato è tua mamma!” Lucio rimase impietrito, raggiunse a fatica la maniglia della porta del bar, e se ne andò malconcio lungo il marciapiede. Ora Gennaretto era veramente solo, lui e il suo bicchiere vuoto. Se ne andò con le mani in tasca, avviandosi verso casa al calar del sole. Cercando un fazzoletto per il suo fastidioso raffreddore, estrasse contemporaneamente il sacchetto dei fiori di ipocrisalide. La sua parte razionale si attivò e come un potente calcolatore arrivò alla soluzione. “Sì, non c’era dubbio. I fiori della signora Clotilde.......lo stavano portando alla rovina”. Con il cuore in gola e il pomo d’adamo che sembrava un secondo naso, si diresse con passo felpato verso casa. Si fermò davanti al cassonetto delle immondizie, stese le braccia, e prima di far cadere il sacchetto di ipocrisalidi nell’oblìo del cassonetto, pronunciò queste parole: “ADDIO A TUTTO QUESTO, SE L’IPOCRISIA E’ UNA MALATTIA, ME LA TENGO E COSI’ SIA!!!”

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