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Genocidio

Creato il 14 aprile 2015 da Malvino
Qualche giorno fa, a proposito dell’omicidio plurimo aggravato consumatosi al Tribunale di Milano, ho scritto che parlare di strage fosse improprio, perché «è strage quando ammazzi alla cieca, perché colpisci membri di una collettività che, per quanto eterogenea, investi di un’identità che è essa stessa il tuo bersaglio», mentre lì «la scelta delle vittime da parte dell’assassino aveva una ratio che le individuava precipuamente in soggetti predeterminati: quel tal giudice, quel tal avvocato, quel tal coimputato, ecc.», sicché, in riferimento a molti titoli strillati dai mezzi di informazione, quella di strage fosse «imputazione a cazzo di cane», mossa esclusivamente dall’inclinazione al sensazionalismo. Qualcosa del genere, anche se a un livello indubbiamente superiore rispetto a quello dell’opinione pubblica che trova voce nel cronista, è accaduto e accade con l’imputazione di genocidio mossa da tempo alla Turchia, e in sede assai più qualificata, con pezze d’appoggio giurisdizionali di qualche indubbia solidità. Non è assolutamente lecito, infatti, sul piano storico e su quello morale negare che cent’anni fa, per diretta responsabilità del governo turco dell’epoca, si sia consumato lo sterminio di un enorme, ancorché imprecisato, numero di armeni, ma quanto è congruo chiamarlo genocidio? Se col termine intendiamo l’insieme funzionalmente strutturato di atti finalizzati all’eliminazione fisica di un gruppo più o meno ampio di individui accomunati da un tratto identitario nazionale, etnico o religioso, fu senza dubbio un genocidio quello della Germania nazista a danno degli ebrei, cercati ovunque fosse possibile raggiungerli e eliminati in quanto ebrei. Se questo è il paradigma, trovano qualche ragione le perplessità avanzate da storici che non possono essere sospettati di simpatie per la Turchia e che, senza negare l’enormità del crimine commesso a danno degli armeni, nutrono qualche dubbio sul fatto che siano stati eliminati in quanto armeni, ne sarebbe prova il fatto che persecuzioni, le deportazioni e i massacri colpirono esclusivamente gli armeni residenti in Anatolia, sostanzialmente trascurando quelli residenti altrove. Ripeto: qui non è discussione che la violenza ci sia stata, e sia stata bestiale, e di dimensioni enormi, e per mano dei turchi, e a danno di armeni, e che questo, anche a distanza di un secolo, reclami giustizia. La questione che sollevo è altra: è corretto parlare di «genocidio armeno»? Per meglio dire: gli armeni che trovarono la morte per mano turca furono eliminati in quanto armeni, in quanto cristiani, o piuttosto in quanto ostacoli – reali o percepiti tali – per la realizzazione di una Grande Turchia che includesse stabilmente l’Anatolia? Nessun negazionismo: morirono a centinaia di migliaia, forse a milioni, ma si trattò di genocidio o di un progetto criminale che comunque non aveva a oggetto un’identità nazionale, etnica o religiosa? Probabilmente è questione irrilevante, ma è proprio sul termine che sembrano acuirsi le tensioni diplomatiche con la Turchia, oggi non meno che ieri. E oggi, a rinfocolarle sul punto, bel bello, ecco Bergoglio, che, seduto in cima alla catasta dei milioni di morti addebitabili ai cristiani nel corso dei quindici secoli in cui il cristianesimo non si fece alcuno scrupolo nell’eliminazione degli avversari – reali o percepiti tali – che gli impedissero la pretesa di cattolicesimo (etimologicamente inteso: κατα ολος, su tutto), azzarda il ruolo di supremo giudice del tribunale penale internazionale. 


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