Il pomeriggio del 19 luglio 2001 ero seduto davanti alla Tv a guardare la diretta fiume da Genova. La settimana prima avevo partecipato a una serata in un famoso centro sociale di Roma. C’era stato un concerto, ma non ricordo il nome del gruppo che aveva suonato. Ricordo che prima del concerto sul maxischermo installato al lato del palco era stato proiettato un filmato. Era un video di un’ora circa in cui venivano dati consigli pratici su come resistere agli attacchi della polizia. C’era una voce fuori campo che spiegava nel dettaglio come proteggersi la testa, il collo e la schiena in caso di aggressione, su come fabbricarsi in casa una maschera antigas. C’era dovizia di particolari, riferimenti ai materiali, alle tecniche di resistenza passiva. Molti tra i presenti, compreso qualcuno dei miei amici, sarebbero saliti sul treno per Genova. Nessuno era animato da cattive intenzioni, tutti però erano allertati, tutti sapevano che non sarebbe stata una semplice passeggiata sotto il sole. Fra i ragazzi che si aggiravano nel vasto cortile del centro sociale quella sera non c’era cognizione che Genova sarebbe stata l’ultima battaglia, che il fascismo di stato avrebbe vinto una volta per tutte, che una stagione di lotte, l’ultima disperata propaggine di una storia iniziata trent’anni prima, in un’altra Italia, in un altro tempo, si sarebbe conclusa per sempre. La morte di Carlo Giuliani avvenuta il giorno 20 alle 17.27 avrebbe suggellato quella fine. Il 20 luglio del 2001, a ventisette anni e dieci mesi, è finita anche la mia giovinezza. Quella sera è stata l’ultima volta che ho messo piede in un centro sociale. Le date servono a questo. Dieci anni dopo, ripensando al decennio appena trascorso, vedo una strada in abbandono, vedo una nazione piena di sconforto, rovina e squallore. La generazione che è succeduta alla mia ha messo da parte l’istinto naturale alla ribellione, si è nutrita di piccole rivolte private, non è stata più capace di immaginare, come è dovere di ogni giovane in ogni luogo della terra, una rivoluzione. Dieci anni dopo ripenso ai versi di una poetessa cilena, Carmen Yáñez: “Erano giovani i morti della mia generazione. / Ridevano, colmavano gli spazi, / bruciavano le loro candele, / nemmeno ci pensavano alla morte”. I morti della mia generazione sono i vivi di oggi, quelli che non vogliono più sentir parlare di quella storia.