“Ero in una città di mare ed enormi nuvoloni neri dipingevano cielo e mare del colore dell’inverno. Il vento di mare ci metteva tutto il resto con le foglie delle palme che ondeggiavano lente. Tutto insieme, con le tipiche case di mare che si somigliano ovunque, tutto insieme facevano una nostalgia. Sai quegli intonaci rovinati dalla salsedine. Quei negozi caldi, uguali a se stessi, quei bar appena rinnovati, quei parrucchieri dove si annidano i racconti di tutti. La nostalgia. La mia. La nostra, nel senso di anche la tua, nel senso che avresti provato le mie stesse identiche sensazioni. E il male al cuore l’ho avuto perché nessuna persona al mondo, forse, avrebbe potuto sentire nello stesso punto e con una carne diversa dalla mia, le stesse cose. Era Genova. Era Civitavecchia. Era Piombino. Era Palermo. Era Napoli. Era un luogo della Corsica. O Lisbona. Era solo una città di mare e forse le città di mare ci piacciono non solo perché ci abbiamo passato le infanzie e gli odori portano i ricordi annidati nei vicoli. Forse ci piace una città che ha la sicurezza della terra alle spalle e la libertà del mare di fronte. Le città di mare sono aperte e raccolte. Sono più insicure. Sono maledette. Come noi due. ” (da una Lettera d’amore, III millennio).
Ritrovo questa lettera in fondo ad una cartella, dentro un file. Guardo Genova. Mi viene da piangere e non riesco a dormire. Ho l’impotenza di chi a volte pensa che tutto questo svociarsi per cambiare le cose si vada ad abbattere contro un mal governo diffuso che non è solo l’incarnato di Berlusconi, feticcio, ormai e ovunque, di ogni male. Non è solo lui. Siamo anche noi.
Ha ragione il sindaco Marta Vincenzi a respingere le accuse di non aver saputo gestire una tragedia annunciata. Genova non si è allagata come Roma (la cui acqua era solo di pioggia e stagnava per i tombini chiusi). Genova si è allagata per la pioggia che ha fatto esondare i fiumi. E i fiumi non sono di competenza del sindaco. Il servizio dighe, tanto per dirne una, dipende dalla presidenza del Consiglio. Ma non basta. Gli strumenti c’erano, ma non sono stati “fatti”. La difesa del suolo da chi dipende? Ha ragione, qui, Nicola Zingaretti che in queste settimane si sgola a dire che uno dei problemi del Paese è proprio la mancata individuazione degli organi competenti e spesso le competenze sono sovrapposte e finisce che non è mai né colpa né merito di nessuno.
E’ necessario ridare senso ai governi locali e distribuire le competenze in modo chiaro. E più di tutti non servono salvatori della Patria in salsa singola piuttosto uno straordinario sforzo collettivo dai condomini al Parlamento che ci veda tutti coinvolti in buone pratiche di governo. L’Italia deve uscire dal monarchismo salvifico ed entrare dentro il sistema democratico. Un sistema democratico deve prevedere il controllo e il monitoraggio delle azioni di governo a tutti i livelli. E, ripeto, questo lo dobbiamo fare tutti. Non aspettare che qualcuno si svegli, si paghi gli spot in TV e ci dica che lo farà lui. Sono i dintorni che vanno modificati. Il collettivo diffuso. E il senso profondo di bene comune.