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Gente che ci prova

Creato il 11 giugno 2012 da Marcofre

Secondo me è gente che ci prova.

In un’intervista, Raymond Carver rispondeva così a una domanda sui personaggi dei suoi racconti. Nient’altro. Poi argomentava si capisce, ma la sua narrativa si basava su uomini e donne che ci provavano.

Non importa il risultato. Le categorie del successo, dell’arrivare a conseguire qualcosa non sono previste nella narrativa di Carver. Spesso i suoi personaggi raggiungono il divano, e ci si siedono sopra.
Basta.

Poche cose sono più strane dei racconti di Carver: almeno per alcuni. Si parte sempre da un’idea precisa quando si inizia a leggere una storia. Questa deve iniziare, svilupparsi e concludersi. Ma la conclusione non può essere un punto.

Deve esserci un evento che faccia da spartiacque, si dice.
Qualcosa che faccia capire in modo netto che: “Ecco, sì, finisce qui perché non può continuare”.

Negli occhi e nella testa abbiamo telefilm e film dove la fine spesso è evidente come la luce del sole. Invece, arriva Raymond Carver (non solo lui in realtà), e scompagina, cambia le regole del gioco.

Quando scrivo che occorre re-imparare a leggere, intendo anche questo. Prendere atto che la narrativa adesso è ben diversa da quella di 50 o 80 anni fa. Ma non solo questo. Certo, Carver può irritare perché spesso leggendo i suoi racconti, hai la sensazione che lui d’un tratto si alzi in piedi, esca dalla stanza e ti lasci solo, come un idiota; e che lo faccia proprio sul più bello. Questo comportamento fa sgranare gli occhi, e di solito la reazione che ne segue è il rifiuto di questo autore.

Non intendo affermare che tutta la sua produzione sia perfetta; ma che sia eccellente, quello lo credo. L’efficacia di un racconto non si misura sulla quantità di pagine, e nemmeno perché si verifica un evento che chiude la faccenda.
Cosa deve fare la narrativa? Domanda da un milione di Euro, certo.

La domanda di storie finite nasce anche (anche: poi i gusti sono personali e per questo non si devono discutere. O forse sì?) dalla scarsa fiducia nei confronti della parola. Siccome questa è facile da gestire, non ci vuole molto a confezionare a scrivere. Lo fanno tutti, vero?

E neppure ci si aspetta da parte di un racconto, un agguato. Alcuni racconti di Carver sono proprio agguati. Invece di tranquillizzare (secondo alcuni, quello è lo scopo della narrativa: se non credi nella capacità di una cosa di cambiare la vita, che almeno quella cosa ti faccia un po’ di compagnia), sorprende.

La mia idea è piuttosto semplice. Non ci sono mai state storie finite. “Anna Karenina” non è finito, così come “L’idiota”; per questo i loro autori hanno continuato a scrivere. La parola “fine” è solo una convenzione, una necessità “editoriale”; infatti il libro a un certo punto deve uscire. Dopo, ne arriva un altro, perché è necessario aggiungere una tessera al mosaico. Disegnare un percorso al quale i lettori forse daranno credito, forse no.

L’intera opera di Carver sorprende perché scaccia il sogno della Terra Promessa. Gli Stati Uniti non sono affatto l’ultima possibilità che Dio ha dato agli uomini per salvarsi; ma una Nazione dove la gente è nei guai, e per cercare di rimettersi in carreggiata, abbandona un cane.

Il lettore (soprattutto quello statunitense), adotta allora il termine “minimalismo” per l’opera di Carver. È come se cercasse di rinchiudere in un recinto lo strano essere al quale l’autore ha dato occhi, voce e nome. Non è più un fantasma, ma è Jim, Frank o Jane. Qualcuno di molto vicino, riconoscibile. E per costoro la Terra Promessa è restare sobri. Arrivare alla fine del mese. Fare un poco di ordine.

Se si esce dalla bolla di certa carta stampata, e televisione, che propongono un mondo luccicante e tonico, si scoprirà che funziona proprio così: la gente ci prova. Ha la pancia, perde i capelli, litiga e si fa l’amante. Viene licenziata e via discorrendo. Questo non proibisce di continuare a vivere nella bolla, a pretenderla come un diritto. Non è un diritto: ma una bolla.


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