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Quando Robert Redford salì sul palco per ritirare l’Oscar per la miglior regia in molti rimasero meravigliati. La storia di una famiglia alle prese con l’elaborazione di un lutto famigliare era riuscita a sbaragliare una cinquina composta anche da “Elephant Man” e “Toro scatenato”. Era il 1981 ed il film suggellò un cambiamento già in atto nella carriera dell’attore americano. Abituati a considerarlo nella sua veste attoriale, Redford era diventato nel frattempo un uomo di cinema a tutto campo, con la fondazione dello Utah Film Institute (1979) e successivamente del Sundance Film Festival. L’esordio registico rappresentò quindi la legittimazione di un cambiamento segnalato anche dalla scelta di un tema, quello del dramma familiare, lontano dalle corde di un attore che aveva forgiato la sua immagine sull’espressione più vitale dell’essenza americana. Qui al contrario la voglia di fare lascia il posto ad un ripiegamento per molti versi riconducibile alla delusione suscitata dalla sconfitta delle grandi utopie del decennio precedente, su cui l’attore si era già soffermato con “Tutti gli uomini del presidente” ed “I tre giorni del condor”. Senza una guerra da combattere i protagonisti del film esprimono un reducismo esistenziale tradotto da un percorso dolente e contraddittorio. Beth (Mary Tyler Moore) è una madre ferita che inconsapevolmente rimprovera al figlio di essere sovravvissuto al fratello annegato in mare, mentre Calvin (Donald Sutherland) è un padre impegnato ad impedire la disgregazione del nucleo familiare messo a dura prova dal senso di colpa di Conrad, convinto di essere responsabile di quella sciagura. Sullo sfondo di un paesaggio autunnale e nel decoro delle case borghesi il dramma si colora di elementi psicanalitici – in funzione simbolica l’acqua ritorna continuamente con ricordi del naufragio e nelle sessioni di nuoto di Conrad, mentre l’entrata in scena dello psicologo sarà determinante per spezzare gli schemi instauratisi all’interno del nucleo familiare - per arrivare a delineare una crisi che nella negazione dell’amore materno mette in dubbio la natura stessa dell’istituzione familiare. Se il punto di forza del film rimane la capacità degli attori di restituire le fragilità emotive dei personaggi “Gente comune”, con il suo successo diventerà l’apripista di un’annata in cui l’analisi delle disfunzioni familiari diventerà centrale sia nella letteratura (Raymond Carver ed il romanzo minimalista) che in molto di quel cinema indipendente sponsorizzato dallo stesso regista. Forse non è stato un caso.
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