S. abita a uno sputo dall’ufficio, un paio di isolati. Il che la dice lunga sulla sua estrazione sociale: un appartamento di proprietà in corso di Porta Vittoria non lascia dubbi. E infatti dubbi non ne abbiamo. S. potrebbe tranquillamente non lavorare, non occupare inutilmente un posto togliendo l’opportunità a un precario qualsiasi di emanciparsi, farsi una vita, recuperare una dignità. Se fossi il capo, qui, la voce “residenza” costituirebbe un elemento fondamentale di cui tenere conto. Mi direte: magari il candidato/a ha in subaffitto una cantina o un seminterrato in piazza del Duomo. Si, vabbè. Riconosci comunque il tipo di persona.
Comunque il problema non si pone, S. ha meritatamente superato un colloquio ed ora è qui nella mia stessa stanza. Una ragazza nata sciùra, portamento e look degni di Letizia Moratti, come lei simpatica come una verruca, cappellino compreso. E di Letizia Moratti è anche elettrice: disinformata come tutti quelli che votano di là, commenta a voce alta le news del palinsesto di portali trash come Libero (quello della posta), anche se non mi stupirei se la sua disinformazione attingesse anche all’omonimo pseudo-quotidiano. L’apoteosi dell’aberrazione antropologica cui appartiene si è consumata con l’organizzazione della sua cerimonia nuziale, non affidata a un wedding planner solo perché è pure convinta di avere buon gusto, mesi e mesi di telefonate (personali durante l’orario di lavoro) a questo e a quello e il vestito e il pranzo e la location, nozze alle quali non sono stato nemmeno invitato. Tsk.
Pochi isolati a piedi da casa all’ufficio, dicevo. Un tragitto che non può impiegare leggendo. Ma questo non le ha impedito, una mattina di più di un mese fa, un ingresso trionfale con un tomo, edizione di lusso, copertina rigida, una decina di centimetri di altezza, poggiato sull’avambraccio. Spesso si chiacchiera di libri, ci si consiglia, si danno pareri. Così S. ha deciso di fornire il suo contributo, mostrare la sua carta di identità culturale. Io sono così. E io sono Oriana Fallaci, ci ha detto. Un inutile blocco di cellulosa trattata con centinaia e centinaia di pagine contenenti parole disarticolate allineate in sequenza a giustificare il prezzo in quarta di copertina. Questo libro vale tanti caratteri spazi inclusi quanti l’editore le ha commissionato. E S. ha poggiato questa porzione di vuoto in meno al confine tra le nostre due scrivanie, in bellavista. Un colpo basso, un dispetto da scuola media, una linguaccia per vendicare mesi di snobismo culturale nei suoi confronti.
Ma l’ostensione è durata solo un giorno, lo spazio occupato inutilmente da quel libello è tornato ad essere vuoto la mattina successiva, non avendo suscitato dibattito alcuno. Dubito che S. l’abbia letto in 24 ore. Probabilmente era solo un simpatico gadget a forma di cattiveria, un inutile beauty-case-book, un pericoloso e intollerante fermacarte di carta, o l’ultimo ritrovato per l’autopotenziamento dei bicipiti.