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“1984” e “Fahrenheit 451”: l’orrore totalitario
Come anticipato in Binari (9), sono George Orwell e Ray Bradbury i soggetti di questo articolo, e ben venga che sia stato preceduto dalla riflessione di Carlotta Susca su Kurt Vonnegut e la fantascienza: genere troppo spesso sottovalutato. Qui tuttavia è più opportuno parlare di distopia, filone letterario che ha il suo padre fondatore in Aldous Huxley, insegnante di Orwell e autore del romanzo Il mondo nuovo (1932), da cui direttamente discendono 1984 (del 1948) e Fahrenheit 451 (pubblicato nel 1953). L’universo distopico ribalta il pensiero borghese positivista, la prospettiva di un futuro che emendi i mali dell’umanità, e raffigura spesso la degenerazione degli assiomi politici in regimi totalitari.
È interessante rilevare il morboso interesse degli assolutismi verso l’informazione e la cultura, e dunque verso l’esercizio del pensiero: Orwell in 1984 descrive come il Grande Fratello (ebbene si: non è un’invenzione della Endemol…) sorvegli e manipoli gli articoli di giornale e quant’altro possa in qualche modo smentire la “verità ufficiale”; Bradbury immagina in Fahrenheit 451 un corpo dei pompieri impegnato ad appiccare roghi di libri, senza distinzione alcuna.
“A un tratto Clarisse McClellan disse:– Mi permette una domanda? Da quanto tempo lavorate agli incendi?– Da quando avevo vent’anni, dieci anni fa.– Non leggete mai qualcuno dei libri che bruciate?Lui si mise a ridere:– Ma è contro la legge!– Oh, già, certo.– È un bel lavoro, sapete. Il lunedì bruciare i luminari della poesia, il mercoledì Melville, il venerdì Whitman, ridurli in cenere e poi bruciare la cenere. È il nostro motto ufficiale.”(Ray Bradbury, Fahrenheit 451, Mondadori)
L’obiettivo dei totalitarismi raffigurati dai due scrittori è quello di plasmare la coscienza dei sudditi, illudendoli di essere liberi cittadini; a tal fine, viene negato ogni individualismo come anche ogni autentico legame affettivo, l’esistenza viene ridotta a successione di reiterati atti prescritti e in questo modo svuotata di senso.
“Che scrivesse o meno ABBASSO IL GRANDE FRATELLO!, non faceva differenza alcuna. Che continuasse o meno a tenere il diario, non faceva differenza alcuna: la Psicopolizia lo avrebbe preso lo stesso. Aveva commesso (e l’avrebbe fatto anche se non l’avesse mai messo nero su bianco) quel reato fondamentale che conteneva dentro di sé tutti gli altri. Lo chiamavano psicoreato. Era un delitto che non si poteva tenere celato per sempre: potevate scamparla per un po’, anche per anni, ma era sicuro al cento per cento che prima o poi vi avrebbero preso.” (George Orwell, 1984, Mondadori)
Se l’ortodossia del pompiere Montag e del “censore” Winston, i protagonisti dei due romanzi, vacilla, è comunque la paura a tenerli allineati, l’impossibilità di confrontarsi con gli altri: i delatori sono dappertutto, è dovere morale di figli e congiunti per primi denunciare le infrazioni. Solo dall’amicizia con Clarisse per Montag e dall’amore tra Winston e Julia potrà scaturire irrefrenabile il desiderio di riscatto, di riaffermare la propria umanità; una ribellione a cui Bradbury concede qualche possibilità di successo, non così Orwell, perché l’arresto, l’umiliazione, la violenza fisica e psichica si abbatteranno senza esitazione sui due sovversivi: “davanti al dolore, continuò a pensare Winston mentre si contorceva sul pavimento, stringendo inutilmente il braccio sinistro ormai invalido, non ci sono eroi. No, davanti al dolore non ci sono eroi”.
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