Gerard Hanberry 2015
QUELLO SGUARDO DI SGHEMBO SULLE COSE DEL MONDO
A volte basta una frase, una soltanto, ed ecco la rivelazione. Tutto è improvvisamente chiaro, ogni cosa è illuminata dalla giusta luce e si fa nitida. E questo raggio che guida il percorso è una frase contenuta in una lettera di Hanberry stesso, che mi scrive: “l’Irlanda e gli irlandesi hanno un loro modo di porsi leggermente di sghembo rispetto al mondo e alle cosiddette realtà del mondo e penso che questo faccia parte di me e che sia nelle mie opere…”
Questo sguardo “di sghembo”, anticonvenzionale, che è anche un ritrarsi un poco dentro sé stessi, e dunque defilato, questa riservatezza che è propria degli irlandesi, è anche però la ragione di quella loro capacità di vedere le cose da punti di vista inusitati, persino bizzarri. Dunque originali. È quello stesso sguardo, quasi meravigliato e stralunato, che i grandi miniaturisti anonimi hanno conferito alle loro figure nel Libro di Kells.
Forse il termine ‘riservatezza’ potrà sembrare strano a chi non conosca bene questo popolo, che a noi appare così estroverso, festaiolo, aperto e disponibile e, in fondo, tanto simile a noi. Ma le cose non stanno esattamente così. È vero, gli irlandesi sono estroversi, amabili, disponibili, parlano agli sconosciuti, amano far festa ad ogni possibile occasione (come i loro padri Celti), sono trascinatori, grandi affabulatori e accoglienti. Ma un irlandese non ti apre facilmente la parte più profonda del proprio animo. Quando lo fa – se lo fa – è per sempre. Ma non è cosa né immediata né scontata, a dispetto delle apparenze. C’è sempre questa parte protetta, non rivelata, come le colline cave che al loro interno nascondono il Daoine Sídhe, come si chiamano gli esseri fatati.
No, gli irlandesi non sono poi così simili a noi. E dunque ha ragione Hanberry quando parla di questo suo osservare da una posizione un po’ defilata, non ortogonale rispetto all’immagine che si contempla. Perché è da quella prospettiva che si può abbracciare anche l’invisibile. O ciò che si nasconde alla vista.
L’Irlanda è un’isola. Di più; è un’isola al di là di un’altra isola. E questa, che è una remotezza non solo geografica, ma soprattutto temporale e psichica, ha permesso di preservare un’identità culturale, un legame profondo col proprio passato, che in altri luoghi l’Europa ha in buona parte perso. Con il lato invisibile, nascosto della realtà, che è anche un altrove. Non ha però impedito agli irlandesi di proiettarsi in avanti, verso il futuro, appena ne hanno avuto l’opportunità.
È sempre bene ascoltare quello che un poeta dice di sé, e dunque tutto questo va tenuto presente se si vuole davvero comprendere la poesia di Gerard Hanberry.
Uno degli aspetti più immediati, a una prima lettura, è la duplice stratificazione tonale della nota di fondo dei suoi versi: l’ironia e la malinconica riflessione sul mondo. Dico duplice stratificazione, perché ironia e malinconia si rincorrono, si intrecciano e si fondono in una danza costante, divenendo quasi un unico suono, senza che l’una prevarichi mai sull’altra. E, a ben vedere, questa disposizione verso le cose del mondo conferisce al suo sguardo una sorta di distacco contemplativo. Ma è un distacco gentile, mai giudicante, spesso compassionevole. Che mai si adombra di pessimismo o scetticismo.
Nei suoi versi, la ribellione che serpeggia da secoli in molta della poesia irlandese, da quella bardica all’epica, dalla poesia civile alla lirica, non ha toni accesi o violenti, ma vesti dai colori pacati, non per questo tuttavia meno efficaci. Poiché Hanberry, pur con quella sua ironica o dolente gentilezza, non tace certamente sui mali del mondo, anzi, sa bene quanto potente sia l’ombra che proiettano sull’animo umano e quanto fragile sia la bellezza che ce ne può salvare.
La salvezza è nei sentimenti più intimi e nella contemplazione della natura. Una natura dai paesaggi grandiosi e di una dolcezza pervadente, ma anche aspri, selvaggi, primordiali, come quelli delle isole Aran, che si protendono verso l’infinito dell’oceano, o del Burren, l’immenso tavolato calcareo nella Contea di Clare, percorso da fessure e crepe profonde (grykes) in cui cresce una incredibile varietà di piante locali, ma anche mediterranee e alpine, fra cui la genziana blu, che è il simbolo del luogo, o in cui appaiono come per magia laghetti che poi altrettanto rapidamente scompaiono. Immagini fuggevoli in un paesaggio di pietra.
L’aspra immutabilità e la delicata mutevolezza fuse insieme in un miracolo di bellezza, di un’armonia che nasce da potenti contrasti. La bellezza come ossimoro, o come la coincidentia oppositorum del dio di Niccolò Cusano. Poiché è proprio nella dilatazione all’infinito dei singoli elementi, per opposti che siano, che essi finiranno per coincidere. Ed è questa la tensione verso l’infinito che la contemplazione di una natura al suo stato selvaggio, di quelle coste che affacciano sullo spazio incommensurabile dell’oceano, qual è quella irlandese, alimenta nell’anima.
Non c’è dubbio che il paesaggio, il luogo fisico in cui un poeta vive – e Hanberry è profondamente legato alla sua Galway e alle contee che la circondano – abbia un effetto potente sulla sua poesia e sulla sua poetica. Lo è di certo per lui.
Dunque per Hanberry davvero la bellezza può salvare il mondo. E questa bellezza è forza. Chiedete a un irlandese, a qualunque irlandese, se non sia questa la sua stessa convinzione.
Ma lo stile è sottile, pacato è il ritmo della parola, spesso piano, ampio, arioso, talvolta quasi classico. E tutto questo comunica al lettore un senso di serenità, di pace, anche quando, come in Cillìn ad esempio, l’argomento è di quelli atroci, o quando registra, con occhio sempre attento all’umano, la condizione attuale del mondo, con la sua violenza, le sue ingiustizie, le sue paure. Non ultima quella della morte.
Hanberry è anche un poeta della tenerezza. I testi dedicati alla moglie, come Braci, o Occhiali da sole, in cui arde la luce gloriosa di un’estate romana e degli scavi di Ostia, e alla madre, come In Grattan Road, rivelano la capacità di un amore limpido e profondo, in grado di superare gli scogli del quotidiano e la prova degli anni.
Dalle piccole cose alle grandi questioni della vita. Così si potrebbe riassumere lo spirito dell’ultima raccolta, What Our Shoes Have to Say About Us, che prende il titolo dal testo omonimo. Che dicono di noi le nostre scarpe, infatti è un rovesciamento di visione, dal basso verso l’alto, dal piccolo al grande, dal suolo su cui poggiamo i piedi, a ciò che ci sovrasta. I rozzi scarponi del padre insegnano valori antichi, semplici; quel grande buon senso degli irlandesi, che permette però a un animo visionario di spiccare balzi altissimi nell’etere.
Ma è anche dalla prospettiva delle scarpe dei boia che vediamo i piedi nudi di un condannato alla sedia elettrica e le preziose pantofole di un papa ne tradiscono la pompa terrena. Tuttavia è nella contemplazione di una singola scarpa, antica di cinquemila anni, rinvenuta in Armenia nel corso di uno scavo, che tutto torna nella giusta prospettiva: nulla è cambiato nei millenni. Il percorso dell’uomo parrebbe girare in tondo. Non c’è progresso. Noi camminiamo come i nostri antenati, seguendo un percorso già tracciato, senza mai allontanarcene. Ignorando ostinatamente le infinite, possibili deviazioni. Tenendo lo sguardo ostinatamente fisso davanti a noi.
Quella nota ironica che serpeggia ed emerge a tratti nei suoi versi. Lo sguardo di sghembo coglie ogni sottile sfumatura giocosa che colora le cose e le trasforma. Anche le più modeste, in apparenza.
E cosa c’è di più modesto, elementare, apparentemente, della punteggiatura? Con l’alfabeto, la base della scrittura. Quella che ne scandisce il ritmo, insieme al suono della lettura ad alta voce e ne struttura la forma.
In Vi presento la punteggiatura, (che ho già pubblicato qui sul mio blog) l’ironia nasce dal contrasto tra l’astrattezza dei simboli grafici e l’umanizzazione di questi segni a prima vista aridi, cui Hanberry attribuisce sentimenti, pregi e difetti umani. La loro funzione, enfatizzata dall’occhio e dall’orecchio attento di un grande poeta, emerge con tale forza, da costringerci ad un’attenzione da amanuense e ad un rispetto maggiore per questi indispensabili, umili compagni della parola scritta, senza i quali essa rimarrebbe non solo spesso ambigua, ma appiattita e atona, confinata alla carta, senza raggiungere la mente e il cuore. Poiché sono davvero le piccole cose a rivelare il valore delle più grandi. In fondo, non è attraverso la leggerezza che si giunge, in punta di piedi, al cuore stesso delle maggiori verità?
Questo testo giocoso – delizioso il riferimento alle arie che si dà la Lineetta dopo l’incontro con Emily Dickinson – rivela solo una delle corde creative di Hanberry, che sono molteplici e spaziano dal dramma, al folklore, dall’intimità, all’impegno civile, dall’idillio al pathos. E, nel leggerla e tradurla, non ho potuto non pensare a quelle pause di levità che i monaci irlandesi si concedevano durante il faticoso lavoro di amanuensi e di prodigiosi miniatori nei loro scriptoria, quando, con gli occhi arrossati e la mente affaticata per la stanchezza, nella concentrazione necessaria a tracciare complicatissimi disegni di intrecci, spirali e viluppi nastriformi, disegnavano lungo i margini della pergamena gatti che inseguivano topolini, salmoni danzanti fra le onde, piccole caricature di confratelli. Ma pur sempre usando quello stesso inchiostro, quello stesso calamo, quegli stessi pigmenti con cui creavano i capolavori che ci hanno lasciato in eredità.
Forse non tutti sanno che furono proprio gli irlandesi a inventare il libro scritto come noi lo conosciamo. Le lettere maiuscole, la punteggiatura, gli spazi fra le parole, i paragrafi, la decorazione delle lettere maiuscole e la decorazione delle pagine sono tutte invenzioni degli amanuensi irlandesi, nate dalla necessità di facilitare la lettura a voce alta delle Sacre Scritture. Questa rivoluzione, che è mentale prima ancora che visiva, è significativa del valore che l’Irlanda ha da sempre attribuito alla scrittura e al suo ruolo ordinatore del pensiero. La struttura ritmica dello spazio e del tempo, che dalla pagina scritta si incanala, attraverso gli occhi e la voce, verso la mente e la plasma.
Un discorso a sé merita il lungo poemetto in cinque parti, Poesie per Wilde (The Wilde Poems).Nel 2011 Hanberry pubblica una rivoluzionaria biografia di Oscar Wilde, More Lives Than One – The Remarkable Wilde Family Through The Generations, (Più di una vita – la straordinaria famiglia Wilde lungo le generazioni) in cui, con un lavoro di ricerca durato un decennio e grazie alla scoperta di nuovi documenti, anche processuali, non solo getta una nuova luce su aspetti poco noti della personalità di Wilde, ma rivela la vera, la reale causa, fin’ora ignota, della durezza della sua condanna e i retroscena politici che portarono al suo vergognoso processo. Di fatto, alla sua distruzione. La novità, rispetto alle molte, pur autorevoli, biografie di Oscar Wilde, è nell’accurata ricostruzione delle origini e delle vicende della sua famiglia alla ricerca del perché Wilde, all’apice della fama, abbia trascinato sé stesso e il nome della sua famiglia nel fango. Così ecco le vite dei famosissimi genitori, Sir William e Lady Jane Francesca ‘Speranza’, personaggi di spicco della storia e dell’aristocrazia culturale irlandese, ma anche protagonisti di molti scandali, dello sciagurato fratello, della moglie infelice, morta per un tragico errore medico, fino a giungere ai suoi attuali discendenti, che ancora oggi recano il cognome Holland, quello che la moglie di Wilde scelse di assumere dopo lo scandalo.
L’ombra di Oscar Wilde non ha evidentemente abbandonato Hanberry e, nei Wilde Poems, è più dominante che mai, insieme a quella di suo padre. La fama di Sir William, l’orgoglio per i due figli, lo scandalo che lo travolge. La gloria letteraria, la fulgida stella di Oscar presto disintegrate dalla catastrofe, che lo seppellisce sotto la vergogna, lo stigma sociale e i sensi di colpa, l’errare lontano dalla patria. Ed è significativo come in questo testo, nella parte dedicata a Oscar, Hanberry concentri la sua attenzione quasi unicamente sugli anni della sua rovina e sull’amarezza della fine.
Padre e figlio sono legati da un fato comune; le radici della tragedia di Oscar affondano negli eventi della vita di Sir William. E poiché questa vicenda ha davvero la statura di una tragedia greca, i Wilde Poems sono strutturati come un coro, la cui voce si alterna a dei monologhi. La narrazione è quella di un osservatore esterno. All’inizio, nell’intera sezione 1-I, quasi un primo stasimo, è il coro che parla, prima in tono interrogativo e poi con voce accorata, come a preannunciare la tragedia che verrà. La voce in prima persona di Sir William, nelle sezioni 1-II e 1-III, ignaro dei mali che sta attirando sulla sua casa e degli eventi futuri. In 2, 3 e 4 un narratore esterno, potrebbe essere un messo o un corifeo, narra le stazioni della discesa all’inferno e, nell’ultima poesia, la quinta, l’esodo, il narratore è il padrone del caffè parigino, davvero a man of no importance, in cui Wilde, sotto falso nome, si rifugiava negli ultimi giorni del suo calvario.
In tutto il testo la voce di Wilde tace, lontana, annichilita. Già morta al mondo. Perché quel che aveva da dire l’ha detto nelle sue opere ed è lì che va cercata la sua verità. La sua caduta, la sua fine non sono quelle dell’artista prodigioso, ma dell’uomo travolto da sé stesso e dagli eventi. Come per ogni artista, la verità di Wilde vive nel mondo di quella forma che lo ha abbagliato, non dell’evento. Lo aveva capito, lo aveva detto già nel Ritratto di Dorian Gray.
Ce lo ricorda Hanberry, parlando da poeta di un altro poeta. Con il suo sguardo di sghembo sulle cose del mondo.
F.D.
Questa Nota Introduttiva e una scelta delle poesie di Gerard Hanberry nella mia traduzione è di prossima uscita sulla rivista Poesia di Crocetti
Gerard Hanberry è nato a Galway nel 1955, dove tuttora risiede. Si è laureato alla National University of Ireland Galway e, nella stessa università, insegna scrittura creativa e inglese. Negli anni ’80 e ’90 ha collaborato come giornalista al Galway Observer ed è autore di testi di canzoni e cantautore egli stesso. Ha pubblicato quattro raccolte di poesie, Rough Night, Stonebridge Pubblications, 2002, Something Like Lovers, Stonebridge Pubblications, 2005, At Grattan Road, Salmon Poetry, 2009, What Our Shoes Say About Us, Salmon Poetry, 2014 e la biografia in forma di saga familiare di Oscar Wilde e della sua famiglia, More Lives Than One- The Remarkable Wilde Family Through The Generations, The Collins Press, 2011.
I suoi testi sono stati pubblicati su riviste e quotidiani in Irlanda, in Inghilterra, USA e Australia, tutti paesi in cui ha partecipato a trasmissioni televisive e radiofoniche ed è stato invitato a presentare i suoi libri. Ha ricevuto numerosissimi premi, fra cui il Brendan Kennelly/Sunday Tribune Poetry Award. Per More Lives Than One, che ha avuto grande eco anche negli USA e in Australia, è stato ricevuto personalmente dal Presidente della Repubblica Irlandese.
Sir William Wilde
POESIE PER WILDE
Da What Our Shoes Say About Us (Salmon Poetry 2014)
1 SIR WILLIAM WILDE A MOYTURA HOUSE
(Cong, Contea di Mayo, 1865)
I
Eccolo lì,
a correre veloce sulle strade col suo phaeton elegante
dalle grandi ruote dipinte,
le redini di canapa come fosse un patito delle corse.
Mi chiedo che lo conduca mai
ogni giorno ai vecchi forti delle fate.[1]
A valutare a misurare a passi, a sradicare rocce
che stanno lì dai tempi di Noè.
Non è propizio questo modo di fare,
il Piccolo Popolo mantiene il riserbo sui propri segreti.
Una notte, per via, incontrerà la nera megera,
ne sentirà il respiro gelido sul collo.
Si dice che abbia preso le ossa di un gigante
dal tumulo di pietre di Ballykine,
le abbia chiuse dentro una valigia
e se le sia portate via.
Non ne verrà nulla di buono,
la cosa è più che certa,
e se la maledizione non cadrà su di lui
ricadrà sopra i suoi discendenti.
Certo che un uomo di tale intelligenza,
che gira il vasto mondo,
dovrà sapere quale sventura
si sta attirando sopra la testa.
II
Ho sentito le armate dei Firbolg[2] ieri notte
attraversare i campi verso ovest
per affrontare i Danann morti da lungo tempo.
Si sono viste le forme spettrali
turbinare fra i vapori che salgono dal Corrib.
Gli Annali certo avevano ragione.
È questo il luogo dove le loro ossa di guerrieri
riposano sotto i tumuli di pietre.
Tutto va registrato, e tutto reso noto.
III
Vengo diffamato a Dublino,
dove i cantanti di strada sbeffeggiano il mio nome:
Cercherò di dirti se hai voglia di sentire
Come l’oculista a Molly Travers gli occhi ha saputo aprire.
Naturalmente è pazza,
non le crede nessuno
ma tutti fanno pettegolezzi.
Alla fine un quarto di penny è quanto ha avuto per gli inconvenienti.
Io ho cercato di ignorarla, oh sì!
Due volte la signora infernale è andata a Liverpool
ma è tornata pretendendo di più,
strepitando per tutta la città.
Gli avvocati si son riempiti le tasche,
farabutti, ma che sia almeno finita.
Ho pensato di trovar pace qui nell’ovest
dove per strada almeno i contadini mi salutano.
Certo della faccenda qualcosa hanno sentito.
La settimana prossima verrà la mia Signora moglie
e presto anche i ragazzi arriveranno
da scuola per l’estate.
Ah i ragazzi! Quanto amano Moytura.
Tutti i loro insegnanti ne tessono le lodi.
Nutro grandi speranze,
grandi speranze davvero.
2 PIÙ DI UNA VITA[3]
I
Guardatelo scendere dalla carrozza,
risplendente nel lungo mantello
con il colletto di velluto nero
ed il garofano verde all’occhiello.
Freme il teatro invaso dai profumi,
lo straordinario ingegno.
Autore! Autore!
Il puro genio di quest’uomo.
II
Ammanettato, la divisa da detenuto a righe,
attende a Clapham Junction
il treno per Reading
sul marciapiede scoperto coi carcerieri
sotto la grigia pioggia di novembre
in mezzo al trambusto del meriggio.
Estranei puntano il dito a quell’uomo grottesco,
afflitto ed umiliato,
poi qualcuno lo chiama per nome.
Si raduna una folla che lo irride.
Lui china la testa quasi rasata,
con la spalla si netta uno sputo sulla guancia.
Ogni giorno per un intero anno
a quella stessa ora piange
e per lo stesso lasso di tempo.
III
A Napoli c’è un giardino solitario
dove gli afflitti trovano sollievo
quando il fardello si fa troppo gravoso.
In una notte senza stelle un uomo ringobbito
entrò in quel luogo d’ombre
e sedette da solo in gran disperazione.
Udì come un fruscio,
poi cose apparvero quasi nubi di nebbia.
Capì che erano gli spiriti irrequieti
di coloro che erano ormai andati
ma non avevano trovato pace. Lasciò il parco
e arrancò sul colle ad affrontare un altro giorno.
3 “IN TUTTO IL MIO GIARDINO NON C’È UNA ROSA ROSSA!”
L’usignolo e la rosa – Oscar Wilde
Impossibile il sonno
dietro la ‘parete gocciolante’,
egli volge la mente
ai grandi monti viola
fra cui sorgeva il casino di caccia
sulla riva di un lago circondato di giunchi
pieno di carpe malinconiche sempre immobili
se non destate da antiche canzoni
e sussurrii dei locali barcaioli.
Emerge dalle nebbie un verde colle del Connemara,
scanalato di lazybed[4], resti dei giorni della carestia.
Tomba di un gigante egoista che rifiutò ogni condivisione.
Sente la voce di sua madre
che legge Eschilo camminando su e giù
nel loro palazzo di Dublino nella piazza elegante
con i suoi bei giardini protetti e ben serrati
dietro inferriate dalla punta aguzza.
Solo chi ha la chiave può entrarvi.
Poi finalmente l’alba striscia su Reading
dove persino i denti di leone si rifiutano di mostrare la faccia.
Ah, da che piccole cose dipende la felicità!!
4 WILDE A BERNEVAL-SUR-MER[5]
Dopo il canto,
le fragole,
l’ultima alzata di bicchiere
prende la lampada e sale
alla soffitta del suo tormento,
si toglie la maschera da Errante.
Nello specchio, un volto disgustoso,
orrendo, dev’essere distrutto.
Ma prima un discorso di commiato,
su come ognuno uccide ciò che ama[6].
Per lo spettrale Melmoth[7], a cui ha rubato il nome,
non un rapido colpo di pugnale,
la sua sarà una ferita più lenta,
mentre arranca sui boulevard,
ma nondimeno una morte sicura.
5 L’ULTIMO ASSENZIO DI OSCAR WILDE
Guardate come arriva,
a passo strascicato dall’albergo di Dupoirier
come chi si trascina i bracci di una croce.
Gli inglesi dicono sia un mostro,
un orco dagli strani desideri,
quanto poco ne sanno in Inghilterra.
Il più generoso degli uomini,
per lo meno quando ha le tasche piene.
Si dice abbia bevuto col Principe di Galles.
Gli piace sedersi qui di pomeriggio
a sorseggiare assenzio, lontano dai boulevard
dove, quando lui entra, se ne vanno.
Che vita di spine.
Nel mio caffè è sempre il benvenuto.
Ah! Monsieur Melmoth, bonsoir…
[1] In inglese fairy-forts. Così sono chiamate in Irlanda quelle antiche costruzioni circolari di pietre a secco, antiche di decine di secoli. Secondo la tradizione, si crede infatti che siano rifugio e abitazione degli esseri fatati e che non sia consigliabile entrarvi o avvicinarvisi. (N.d.T.)
[2] Mitico popolo che invase l’Irlanda, sconfiggendo i mostruosi Fomori. Secondo il Leabhar Gabhála Éireann, (il Libro delle conquiste d’Irlanda) in seguito essi vennero sconfitti nell’epica Prima battaglia di Mag Tuired, (Moytura) presso il lago Corrib, dalla stirpe divina dei Tuatha Dé Danann che, successivamente, all’arrivo dei Milesi, i Celti d’Irlanda, si resero invisibili ad occhio umano. (N.d.T.)
[3] Il titolo è tratto da un verso della Ballata del carcere di Reading: “For he who lives more lives than one/ more deaths than one must die”. “Poiché chi vive più di una vita/ più di una morte poi dovrà morire”. (N.d.T.)
[4] Il lazybed , letteralmente “fondo pigro”, è una tecnica molto arcaica di coltivazione, secondo cui si scavano con un particolare badile dei solchi di terreno in linee parallele, formando con la terra scavata delle strisce di terreno rialzate, alternate a solchi. Molto diffusa in Irlanda per la coltivazione delle patate, fino alla Grande Carestia del 1845.52. (N.d.T.)
[5] O. Wilde vi andò subito dopo la sua scarcerazione e qui scrisse The Ballad of Reading Gaol. (N.d.T.)
[6] Yet each man kills the thing he loves, è un verso della Ballata. (N.d.T.)
[7] Melmoth l’Errante è un famosissimo romanzo gotico di Charles Robert Maturin, prozio di O.Wilde. Durante il suo esilio in Francia, Wilde ne assunse il nome. (N.d.T.)
THE WILDE POEMS
- Sir William Wilde at Moytura House
(Cong, Co Mayo 1865)
I
There he goes,
galloping the roads in his fancy phaeton
with the big painted wheels,
hemp rope for reins as if he was a turf-man.
What takes him every day
to the old fairy-forts I wonder?
Measuring and stepping, uprooting rocks
that have stood here since Noah.
There’s no luck in that carry-on,
the ‘little people’ like to hold their secrets close.
He will meet the black hag some night on the road,
feel her cold breath on his neck.
They say he took the bones of a giant
from the rock-pile at Ballykine,
packed them into a travelling bag
and away with him.
Nothing good will come of it,
that’s for certain sure,
and if the curse does not land on him
it will light on those who will come after.
Surely a smart man the likes of him,
out in the broad world,
must know the misfortune
he is drawing down around his shoulders.
II
I heard the Firbolg host last night
as they passed westward through the fields
to face the long-dead Dannans.
Their spirit-shapes were seen
swirling in the mists off the Corrib.
The annals surely have it right.
This is the place where their warrior bones
have been resting under the piled cairns.
All must be recorded, all must be made known.
III
I am vilified in Dublin
where the street-singers mock my name:
If you will listen to tell I will try
How the oculist opened Moll Travers’s eye.
She’s mad of course,
no one believes her,
but every tongue wagging.
A farthing she got in the end for her troubles.
I tried to wash my hands of her, oh yes!
Twice the infernal lady went to Liverpool
but returned, demanding more,
ranting through the city.
The lawyers have stuffed their pockets,
the rogues, but let that be an end to it.
I thought to find peace here in the West
where at least the peasants salute me on the road.
Surely they have heard something of the case.
My Lady wife arrives next week
and the boys will soon be down
from school for the summer.
Ah, the boys! How they love Moytura.
The teachers all sing their praises.
I have high hopes,
high hopes indeed.
- More Lives Than One
I
See him step from the hansom,
resplendent in his long coat
with its black velvet collar
and green carnation buttonhole.
The scented theatre is throbbing,
the dazzling wit.
Author! Author!
The sheer genius of the man.
II
Handcuffed and in convict stripes,
he waits at Clapham Junction
for the Reading train
on the open platform with his prison guards
in grey November drizzle
amid the afternoon bustle.
.
Strangers point at the grotesque,
humbled and distressed,
then someone calls his name.
A jeering mob gathers.
He bows a close-cropped head,
with his shoulder wipes spittle from his cheek.
Every day for one full year
he weeps at that same hour
and for the exact same space of time.
III
In Naples there is a lonely garden
where the burdened find release
when their load becomes too weighty.
One starless night a stooping man
came to that shady place
to sit alone in his great despair.
He heard a rustling noise,
then misty, cloud-like things appeared.
He knew they were the restless spirits
of those who had gone before
but had found no peace. He left the park
and trudged the hill to face another day
- ‘No Red Rose In All My Garden!’
‘The Nightingale and The Rose’- Oscar Wilde
Sleep an impossibility
behind the ‘dripping wall’,
he takes his mind away
to the great purple mountains
where their hunting lodge stood
on the edge of a rushy lake
full of melancholy carp that never moved
unless roused by ancient songs
and local boatmen’s whisperings.
A green Connemara hillock climbs from the mists,
ribbed with lazybeds from famine days.
The grave of a selfish giant who refused to share.
He hears his mother’s voice
reading Aeschylus as she paces the floor
in their Dublin mansion on the genteel Square
with its beautiful gardens safely locked
behind spiked railings.
Only those with the key may enter.
Then dawn at last creeps over Reading
where even the dandelions refuse to show their faces.
Ah, on what little things does happiness depend!
- Wilde At Berneval-Sur-Mer
After the singing,
the strawberries,
the last raised glass
he takes the lamp and climbs
to the attic room of his misery,
removes his Wanderer’s mask.
In the mirror, a loathsome face,
hideous, it must be destroyed.
But first a valediction,
how each man kills the thing he loves.
For ghostly Melmoth, whose name he has stolen,
no swift dagger-slash,
his will be a slower wounding,
shambling through the boulevards,
but certain death nonetheless.
- Oscar Wilde’s Last Absinthe
Look how he comes,
shuffling from Dupoirier’s place
like a man dragging the spars of his cross.
The English say he is a monster,
an ogre of strange desires,
how little they know in England.
The most generous of men,
at least when his pockets are full.
They say he drank with the Prince of Wales.
He likes to sit here in the afternoon
sipping his absinthe, away from the boulevards
where they leave when he enters.
What a life of thorns.
He is welcome in my café anytime.
Ah! Monsieur Melmoth, bonsoir…
(C) 2015 by Francesca Diano per l’Introduzione e la traduzione. RIPRODUZIONE RISERVATA