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Martedì 26 giugno si è svolto all'Auditorium del Palazzo di Giustizia di Napoli il convegno “Gestire i collaboratori di giustizia - omissis” organizzato dalla Camera Penale del foro partenopeo. L'evento segue a quello realizzato insieme all'Università Federico II dal titolo “Garanzie e libertà per i difensori” che si proponeva la necessità di difendere l'autonomia degli avvocati. L'incontro si concluse con un protocollo d'intesa con l'Ordine dei giornalisti al fine di eliminare le interferenze tra mass media e processo penale.
Un altro tema rilevante attiene alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia e sulle trascrizioni ritardate in quanto, non essendoci alcun controllo su di esse in fase dibattimentale, il difensore non riesce ad avere una cognizione precisa di quanto stia avvenendo. L'esperienza di decenni ha evidenziato le colpe dell'interrogato per aderire ai “desiderata” investigativi: si tratta di temi su cui non c'è stato finora un confronto adeguato.
Il tema dei collaboratori di giustizia suscita diverse reazioni nei confronti del pubblico sia per l'attualità dei temi trattati sia per la multi-problematicità delle conseguenze che tale rapporto implica (riduzione della pena, benefici penitenziari, etc.). Salvo l'importanza delle dichiarazioni rilasciate dal soggetto, che si rivelano utili anche nel campo del contrasto al terrorismo, non si può dimenticare che, nel contratto tra pentito e Stato, tutti concorrono a dei vantaggi; il che non significa sminuire il valore retributivo della pena, ma vi sono senza dubbio degli aspetti da chiarire che chiamano in causa il funzionamento del sistema giudiziario.
Il collaboratore rende dichiarazioni sulla base di un contratto che gli consente sia di avere un sostegno economico che per uscire dal circuito criminale. È anche evidente però che questi sono un beneficio per lo Stato che in tal modo può portare avanti i propri progetti antimafia insieme a tutti gli altri strumenti in dotazione alle istituzioni che non sono meno efficienti; la registrazione delle dichiarazioni permettono di comprendere la spontaneità di queste oppure se sono state sollecitate da terzi. L'art. 13 che disciplina la condotta del Pubblico Ministero (Pm) ricorda i valori d'imparzialità, indirizzo e indagine: altri elementi sono l'efficacia della politica giudiziaria e la trasparenza degli atti. Il Pm deve fare un approfondimento delle dichiarazioni del collaboratore nel rispetto della segretezza: tanto più sono numerose le dichiarazioni tanto più sarà difficile estrapolare quelle utili ai fini dell'indagine (convergenze del molteplice, verifica incrociata, etc.). Si tratta di un lavoro di selezione non indifferente nonché di valutazione strategica.
Il titolo del convegno “prassi devianti” non può riferirsi a “omissis” (is rebus omnibus) perchè c'è tutta una giurisprudenza di legittimità per cui l'omissis corrisponde al dovere di soluzione del Pm che, durante l'indagine, deve estrapolare una parte delle dichiarazioni che devono essere ristretti a quelle corrispondenti alle contestazioni. Le richieste di misura cautelare si fondano su una serie di elementi per sostenere l'indagine ed il Pm è libero di sceglierli, fermo restando che potrebbe tenerne fuori alcuni per motivi strategici o di riservatezza; ciò che invece non può tralasciare sono gli elementi a favore dell'imputato perchè non può acquisire solo un paio di dichiarazioni di accusa. È vero che gli “omissis”, contenuti nei verbali, non consentono una lettura adeguata delle dichiarazioni ma devono esserlo nel quadro indiziario.
Sulla sufficienza dei verbali omissivi ci è un'ampia giurisprudenza tanto che si può dare per scontato il deposito, fermo restando che l'oscuramento sia legittimo. Nelle richieste d'indennizzo, il quadro si modifica in riferimento al materiale raccolto ed ai fatti perchè non si discute alla ritualità del deposito quanto la completezza del quadro accusatorio: mentre per le richieste di misura cautelare il quadro è selezionato, il Pm non ha più possibilità di tornare indietro perchè se allargasse tutte le dichiarazioni, violerebbe il segreto. Unica eccezione fu la sentenza del 1991n. 145 della Corte Costituzionale di fronte alla questione se il Giudice per le indagini preliminari (Gip) non volesse allegare certi atti, stabilì che il Pm non poteva sottrarre elementi d'indagine quando sono fondati e cioè senza alcuna possibilità di scelta. Diverso è il caso in cui il Pm ha chiesto dei fatti sul rinvio a giudizio mentre l'indagine è in corso, ad es. nel corso di un processo può rifiutarsi di depositare delle dichiarazioni.
Nel 1999 nel processo per l'omicidio Imposimato, la Corte a seguito della relazione del Pm, aveva appreso che uno degli imputati aveva affermato di aver commesso un omicidio diverso da quello per cui era indagato, ciò comportò che la Corte fosse informata ma, allo stesso tempo, la fase delle indagini preliminari implicava il divieto del deposito delle dichiarazioni: si emise un ordinanza per depositare le dichiarazioni seppur tutelate dal segreto. Tempo dopo il Pm presentò un ricorso in Cassazione che fu accolto. Ciò significa che, di fronte all'autonomia del Pm, l'unico controllo deve essere quello della difesa e del giudice.
Concludendo, avvocatura e magistratura devono collaborare per migliorare la qualità della giurisdizione in modo da prevenire gli errori giudiziari di fronte ai processi che hanno una storia “già scritta”. Ciò non vuole essere un atto di accusa ma è fuori dubbio che in questo periodo sono stati compiuti degli errori madornali come ad es. sulla strage di via D'Amelio dove la Procura di Caltanissetta vuole mettere in discussione i sette ergastoli in Sicilia a persone ritenute innocenti dalle rivelazioni di Spatuzza. Il Pm stabilisce gli atti di accusa, e ciò può rappresentare, almeno dal punto di vista della difesa, una gestione spregiudicata che, però, non è nulla in confronto al potere contrattuale del pentito che rischia di cadere nell'esibizionismo mediatico, ritornando ancora una volta su uno di quei temi già discussi in passato (interferenze tra mass media e processo penale).
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