Il 1988 è stato un anno complesso. Compivo 10 anni e la maestra si ostinava a tirar fuori da me una capacità che non ho mai sviluppato: una sana competitività. Erano giorni in cui la gara di tabelline si faceva violenta e io riuscivo a distinguermi solo in quelle di ricerca sul vocabolario e sui sinonimi e contrari. Vinsi un paio di quaderni a righe e un profumo mignon che avrebbe fatto scappare pure un cinghiale in riserva.
Quell’anno però si caratterizzò soprattutto per un avvenimento eccezionale, uno di quelli che sconvolgono i ritmi di un piccolo paese, che danno nuovi argomenti alle donne sui balconi e che, soprattutto, creano entusiasmo e aspettative su noi bambini, fruitori attenti di Bim Bum Bam e spacciatori di caramelle gommose. Insomma, era arrivato il cinema. I ricordi dopo tanti anni sono confusi, e solo oggi, rivedendo il film, ho potuto ritrovarci i luoghi, i volti e i colori dei miei territori.
Il film è noto: Disamistade, di Gianfranco Cabiddu, opera per la quale il regista ottenne una nomination al David di Donatello del 1990, come miglior regista esordiente. La trama è molto semplice, per certi versi simile a quella di “Banditi a Orgosolo”; un giovane coinvolto in una realtà violenta nella quale si trova immischiato suo malgrado. Raccontata in questo modo sembra la storia di uno a cui comprano casa a sua insaputa e gli mettono pure i gerani alla finestra. Una cosa del genere.
Sebastiano, figlio di pastori, è un giovane tranquillo e amante dello studio. Quando suo padre viene ucciso, tutti si aspettano che voglia vendicarsi. Lui si rifiuta di cedere alla violenza, ma l’atmosfera del paese finisce per coinvolgerlo e non lo salva neppure l’amore per Domenicangela, una ragazza semplice e simile a lui. Un filmone, no?
Così raccontato sembrerebbe un coerente western sardo, invece tra le scene c’è n’è una che riscatta il film, Cabiddu e tutti noi. L’ultima vendetta di Sebastiano è una scena alla Kurosawa: in collegio il protagonista tira fuori un coltello e trafigge un gatto rifugiatosi tra le pietre, per dimostrare la sua “balentia”, fino ad allora soffocata dalla figura materna. Un Aiace fuori dal tempo, insomma.
I luoghi. Il set del film si divide tra Nuoro, i monti della Barbagia e la campagna di Ghilarza, in particolare il Novenario campestre di S. Serafino, anfiteatro assolato sul lago Omodeo.
I volti. Tra gli attori si distingue Maria Carta, la nostra Penelope in attesa, un volto scuro e luminoso al tempo stesso che con la sua voce alza notevolmente il livello del film. Tra gli altri protagonisti c’è il poco credibile Massimo Dapporto che con i suoi baffoni neri più che un sardo ricorda un metalmeccanico siciliano in Germania da vent’anni.
Per noi bimbi, affascinati dalla confusione del set, il mito era solo uno: il nostro compagnetto di classe Walter, selezionato dopo un attento provino dal regista Cabiddu. Inutile dirlo, Walter aveva tutte le caratteristiche per sfondare: viso mediterraneo, fisico asciutto e soprattutto, al tempo, un dentino mancante sul davanti che poteva far immaginare epiche lotte di faida sarda o colluttazioni da strumpa improvvisata. Insomma, il nostro sentimento prevalente nei suoi confronti era invidia pura.
Per fortuna il suo ruolo marginale (doveva semplicemente lanciare un grido al protagonista e portare una missiva), lo ha ridimensionato ai nostri occhi e tutti quanti ci siamo per sempre sentiti protagonisti di questo racconto e di quella magia. Quella volta che arrivò il cinema a Ghilarza ci sentimmo tutti bambini e possiamo dire che quella campagna, quei muretti a secco e quel sole che filtra tra le dita ci sono ancora molto cari.