di un pomeriggio fuori dal portone
Gli aspetti fioriti appena dopo
come i passi coltivati mentre.
che si premediti, qualcosa
per meglio risvegliare
l'aria fitta che imprigiona
madre e padre e il corso grande quasi tutto,
vorrei nient'altro che volare
(Giampaolo De Pietro, da Inni svaniti (in vani), inedito)
Una nota sugli inni svanitidi Renata Morresi
Si spiano i passanti davanti al portone. La parola "passanti" la dice lunga su noi umani (animali, vegetali, minerali terrestri, comunque immersi nei vari tempi cosmici). I personaggi stanno nel quadro (della porta), come in una foto. Stanno nel "vano". Tutto accade o no, fiorisce ma dopo. Accade di sorpresa, ha già una storia. Madre, padre, figlioletto, aspettano, cangianti. Qual è il punctum che li ferma? Sono passati, delebili come tutto, ma nel testo-immagine continuano ad accadere, e il punto cruciale su cui converge lo sguardo è il piede: quello che non c'è, quello della donna senza gamba, "la donna / base di (un'unica) caviglia" . Alla fine arriva lei, la donna cenerentola che ha perso anche l'unica scarpa, e via "se ne / va portata via dalla scena pomeridiana via dal viale via dal portone", in un verso che potrebbe allungarsi all'infinito, come a tracciare una linea immaginaria che continui per sempre il viale.
Presento qui, curata dalla sottoscritta, una piccola scelta di inediti di Giampaolo De Pietro, giovane autore siciliano, appartato eppur solare. Sono Inni svaniti (in vani): i vani sono quelli fotografici dei suoi collage, in perfetta assonanza con l' "invano" in cui ci affanniamo a cantare. Ma proprio nello svanimento sta il segreto dell'inno: "inno" da ymène e da Imeneo, il dio che celebrava gli sposi nelle nozze e il diaframma che li separava, ancora per pochissimo.
La poesia di De Pietro prova a dire di un velamento che rende la vita bellissima: soffonde da tutto e ne è fragile incarnato. Di rado si incontra poesia che pur consapevole dell'esile singolarità del nostro esserci riesce a invitare alla sua molta ricchezza. Questi testi chiedono di uscire dagli usati abiti mentali, dalla comune linearità degli eventi, dalla percezione ordinaria delle cose e delle relazioni: per questo sperimentano con la distanza e l'assenza, con l'anonimato e l'intimità. "Di queste genti all'aria aperta! / Di me che scrivo all'incirca": l'io si diluisce tra gli altri, presenze vive o immaginarie, nomi di persone, figure d'animali, frammenti misteriosi, rotti, persi in giro e raccolti sulla via. Raccolti da un osservatore sfumato, svagato, che li compone nei suoi collage facendoli tornare interi.
Anche la lingua si scioglie con l'io: "Mi scusi. Mi scuci,o". La poesia è qui antidoto all'eccesso di sé: il "circo del mio verbo essere", con verbi senza soggetto, parole divise in segmenti, spezzature profonde (tra "me" e "ne voglio" e "andare", due accapo vertiginosi), non diventa compiacimento formale, riesce a seguire il tenue filo della meditazione. Il mondo continua a fluire e appena sopra, appena a lato, un soggetto più lieve, un "verde leggero individuo", racconta del suo incantamento (ma riservato), della sua ebbrezza (ma delicata).
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Potete leggere qui gli Inni svaniti (in vani)
Scrive di sé l'autore:
"Giampaolo De Pietro si considererà sempre autore in formazione, di versi e scritti di sopravvivenza/e. Ha pubblicato nel 2008, grazie a un editore gentile di questi tempi (Salvatore Schembari, Salarchi immagini edizioni), la bozza-raccolta (raccolta di bozze) Tre righe di sole. Adesso studia un modo personale di dire collage. E fotografare le parole che non sanno stare in posa."
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L'immagine è un collage del poeta, dal titolo "Note di bianco"