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Giampaolo De Pietro, tutte le forme dei sensi

Da Narcyso

Giampaolo De Pietro, LA FOGLIA È DUE METÀ, buonesiepi libri 2012

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Le poesie di Giampaolo De Pietro mi ricordano, per assonanza, i testi di un mio compagno di adolescenza (che poi non è diventato poeta e neanche pittore).
Erano testi legati alla prima esperienza del conoscere veramente le cose attraverso le parole, un dire che corteggia il fare, i sensi.
C’era in quei testi, lo scoppio emotivo dell’adolescenza, il desiderio di parlare di sé e di scoprire se stessi dentro le cose, gli altri.
Il libro di Giampaolo è attraversato dallo stesso orologio appuntito le cui lancette indicano le cose, una ad una, additandole e annotandole. Queste annotazioni diventano subito diario, un quaderno in cui, oltre alle parole, il poeta vorrebbe incollare lacerti di realtà, biologie, scontrini, le forme delle foglie, racconti minimi, tutte le cose leggere e vaganti che si vorrebbero fissare durante il progredire del viaggio e la cui consistenza è fragile.
Così, a far parte del testo, a volte è la stessa grafia, o il silenzio, il contorno, quasi sempre una cantilena saltellante, costruita su assonanze e piccoli scarti, cosicché si possa stupire il lettore e lo stesso poeta che scrive.
Si attraversa la vita, insomma, e le sue stagioni, come su un nastro magnetico che imprime suoni, tracce, immagini, e a volte le cancella, le lascia rasoterra, vicino al bordo dell’estinzione.
La poesia di Giampaolo gioca con le parole, le appende a un filo come abiti, ne scopre gli ingranaggi, il poco che ci vuole per dire figlio/foglio/foglia.
Non dovrebbe essere triste la poesia, dice in un passaggio, ché, triste, e in altri modi, è la vita, il cuore. Compito della poesia, piuttoto, è nutrirsene, fare in modo che lo stupore struggente della vita si fissi nella pagina lasciando una traccia di colore che si è asciugata: “Esercizio, / tenersi anche a niente”.
Zen, forse, esercizi di sopravvivenza a cuor leggero. Ma c’è una condizione essenziale per scrivere in questo modo: scrivere accanto, accanto a qualcuno che ti guarda, che comprende e sa leggere il tuo saltellante passo sulla pagina dove al posto dei segni, di un ritratto a matita, ci sono i fonemi stessi, nella loro immagine concreta di grafemi e note, a raccontare il mondo con vestito leggero, a passo di danza, sorridendo con gentilezza e malinconia alla vita che ci attraversa, che ci ferisce e lenisce.

Sono a Bonn. Scrivo questi appunti sotto un albero da cui cadono strane foglie.

Sebastiano Aglieco

***

mi tengo stretto stretto
allo strumento musicale
di me senza stesso ma
un po’ scordato all’inizio
e fino adesso questo tempo
è in diapason a seguito di
un apprendistato protratto
mi tengo stretto stretto
come il muso del mio cane
quando chiede aiuto

***

L’amore
ancorare. Cosa
sono le nostre
voci. L’ultimo
periodo del
giorno lo tengo
così bene in
mente che posso
camminare
prima di dormire
per così poco, “così molto” che
posso leggere il
confine a
reggermi fino al
sonno senz’addii.

p. 197

***

giornate interamente musicate,
nudo integrale delle ombre,
ombra lunga delle scarpe,
stringhe assolate, tunnel tra le gambe
verticale scintilla della sigaretta

p. 186

***

La vita ci ha svegliati i tratti.

Ti porto a una mandorla.
Mi siedo nel cerchio di nessun pensiero alla felicità,
e se
scamìno dentro la borsa lo ritrovo, felice
non dipesa che da questo cinema, la sua felicità.

p.181

***

Scrivevo da un orecchio solo
il più cielo dei due
poteva vederci solo a occhio nudo
minuto, sconosciuto
quello che se guarda sente (è
il cuore), pure – intravede, sempre

p. 172

***

Ancora fresco
d’alba abbaglia,
buongiorno
popolo di ogni foglia

p. 170

***

Scrivi di piovere.
Di sentire,
limone. Chiavi
che scherzano.
Di un ventaglio
atterrato, chiuso.

p. 152

***

Pensami sereno
seduto a un
palmo di mano
quasi leggero

insieme

p.142


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