Gian Ruggero Manzoni, TUTTO IL CALORE DEL MONDO, Skira 2013, con opere per il testo di Mimmo Paladino
La poesia, in questo modo, raccoglie e riorganizza i lacerti di una riflessione spesso altissima, sui destini propri e dell’intero genere umano; ma anche tutti i linguaggi: dalla delicatezza poetica, seppur crudele, del racconto dell’infanzia di Ivan, al truce e blasfemo riflettere del soldato Lucinio Curione, mandato di gran carriera a Roma ad annunciare la caduta della città di Alesia e mai arrivato, alle incursioni di linguaggi specifici – filosofia, chimica, astronomia – aspetto, questo, che ci avverte della sostanziale mobilità di questa lingua, sempre tesa e strappata da un delirio di redenzione e conoscenza.
Se il primo è un racconto di sacrificio – il giovane Ivan, protagonista del film di Tarkovskij, non rinuncia al compito di cimentarsi nella battaglia, quindi viene catturato dai nemici e ucciso – il secondo è una disperata invettiva contro l’inutilità della guerra, la distruzione delle città per mano degli uomini e del sentore della Bestia che si accampa intorno ai fumi di ciò che è rimasto.
Ma la poesia di Gian Ruggero Manzoni, tuttavia, si spinge oltre la denuncia – c’è una dimensione simbolica e di pensiero, osserva Andrea Ponso nell’introduzione -. Va oltre, in quanto le guerre descritte si oggettivizzano nell’esperienza di abitare una ben vasta deontologia del panico, il regno della Bestia, appunto.
Nel primo poemetto, Gian Ruggero Manzoni utilizza il significato dell’acqua, tutti i suoi attributi occidentali, fino al valore, centrale, della purificazione cristologica, dell’attraversamento e della conoscenza: “Toccarsi, partorire umori e lacrime, ridare acqua all’acqua che scende indisturbata./ Bere acqua, compensare l’ammanco, nella continua trasfusione tra nubi, carne, lago,/cellule, sangue, tramontana, neve, ghiaccio, denti nell’altri pancia,/ liquidi, che si prestano al guado. Un pianeta al carbonio quale base della nostra chimica organica. Allotropiche formazioni intermedie./Acidi grassi. Diamante e frattaglie, ovunque acqua e carbonio, prodotto all’interno di stelle/che trasformano i nuclei di elio in quella C assoluta, assoluta, gravida, obesa, smagliata/ tramite un processo Triplo Alfa. La Trinità dell’Origine, nell’omega del perenne frammentarsi”, p. 25.
Si veda qui come risuonino Eraclito e Pierre Teilhard de Chardin, ma in un modo che fa parlare l’attrito, lo sfregamento, non l’armonia consustanziale; la trasformazione continua e la riconsegna ad altri mondi, del carico delle esperienze di questo mondo che una logica superiore alla nostra scioglierà e riconsegnerà.
Questo avviene nel seno di una grande madre accogliente: “Venere, Stella mia del mattino, il nostro ragazzo non è tornato./Madre, madre mia Afrodite, Madonna sulle icone ricamate, stendi la mano./Prega per noi, che il suo fragile corpo divenga l’affanno e la condanna di quel boia alto e spietato”, p. 27.
Si conclude, questo primo poema, intriso di poesia e di pietà, con una invettiva contro i poeti “affogare negli escrementi dell’umanità è la morte che ci tocca, così è, quando i poeti, sono spesso escrementi di loro stessi”, p. 28. E poi, più in là: “L’esistenza vissuta ha bisogno di consapevolezza più che di esattezza. Perchè l’esistenza vissuta è mito, e unica leggenda.// Ecco il perché…io non credo ai poeti”, p. 71: tema centrale, questo della responsabilità, nella scrittura di Gian Ruggero Manzoni, strettamente connesso al ferimento del corpo nel corpo della scrittura, dell’azzeramento, o frizione, tra corpo della scrittura e corpo dell’universo, quindi anche il nostro: “Leccare una scheggia di granito, succhiarne i minerali, martoriarsi lingua e labbra per capire ciò che le accomuna alle membra dell’umano”, p. 58.
É il corpo, dunque, il terreno stesso delle battaglie e delle trasformazioni, luogo di tutti gli scempi, scheggiato, ferito, redento nell’unico corpo possibile, quello che più gli assomiglia, il crocifisso. Corpo martirizzato, in cammino perpetuo, penitente, dall’età della pietra e degli idoli crudeli, attraversando il presente, fino ai tempi che ci attraverseranno. Senza estinzione della colpa, dunque.
Corpo tatuato, quindi paesaggio e dichiarazione, eccessivo e titanico, in faccia a un dio padrone che se ne nutre: “Dicevano che si era tatuato il corpo intero per non andare in briciole, per non darsi in anticipo alla polvere [...] Oppure perché non voleva cedere al moderno. Oppure per dirsi ancora un avanzo di galera”, p. 66.
Ecco perché la poesia non può volare bassa, non può accontentarsi, non può chiudersi nella certezza di una forma, non può sussurrare, non può inabissarsi e negarsi per sempre, non può identificarsi totalmente – questo è anche un testo di riflessione “sociologica”, di invettiva pura, di prosa e poesia -. La poesia proclama il suo statuto deragliato e sghembo, in pezzi che colpiscono e feriscono per la loro bruta evidenza, per il loro grido sincero e per la scommessa, malgrado tutto, in una qualche forma di redenzione.
“Augurare il male a un altro è forse peccato? Allora chi ha peccato per quel cuneo che ho piantato in pancia? Forse io…forse mio padre? Forse chi mi ha battezzato?/senza merito e altare?”, p. 69
“Mi dicono anarchico perché vado libero, e poi di destra, perché sono un assolutista totalitario energumeno teppista…mi dicono quel che non sanno, quando la mia terra è rossa di sangue, la mia gente ha sempre tagliato gole e la mia casa è quella memoria /di lamenti. [...] Io so solo “che ho fatto la guerra”, che ho ucciso, che ho razziato e che…forse (causa voi, e la vostra falsa civiltà) ancora non trovo,/per me stesso, il pentimento”, p. 73.
“Diceva mia nonna:” Solo dopo un’ora che siamo morti/ecco che appare il nostro vero volto. Solo dopo un anno che la bara ci accoglie/potremo narrarvi di noi, e del vuoto che ci ha accolto.” p. 75.
“Morto colui che in poesia “mai disse”, ora siete feti nel suo corpo disteso. Di me vi ciberete, per poi crescere, per poi liberare frutti che saranno i miei occhi, i miei orecchi, la mia bocca, il mio piacere…/e ancora l’assedio, di voi, dentro…poi fuori la scrittura, l’arte, la scoperta…/l’assedio della verità, che non ha mai torri, mura, bastioni, ma è lava che spande/ sulla neve della nostra imperfezione…della nostra mostruosa e calda, natura di fanciulli e vecchi…presuntuosi e, infine, perdenti…infine assenti, da ogni scontro e da ogni contesa della specie”, p. 76.
“Che sia la scrittura il mio calore, che sia il libro il contenitore del mio amore per voi, che sia la vostra lettura l’amore che vi concedete, che sia il mondo palla rovente verso l’ignoto…verso il perdente…verso il cuore della candela…verso la povertà/del bene, della morte, della Bestia e di me, quale messaggero che non si/trova?
Quale messaggero del niente?“, p. 66.
“Viviamo solo per scoprire la bellezza”, p. 75
Sebastiano Aglieco
Boon, luglio 2013