Mai fidarsi dei giornali.
Avevo letto quell’inserzione tra le pagine patinate di un noto settimanale, come lo avrebbe fatto un diciassettenne col naso francobollato sulla foto di una bella signorina senza un grammo di tessuto addosso. Diciassette anni, all’epoca, li avevo, per carità, ma lo sguardo mi era finito altrove. Decisamente altrove.
L’inserzione diceva che la casa editrice ProvarePerCredere, nel corso del corrente anno, sarebbe stata disposta a pubblicare ben novantacinque, e dico novantacinque!, titoli di poesia. Si richiedeva per tanto ai candidati l’invio di un elaborato entro e non oltre la tal data, in tre esemplari di numero, rilegati e accompagnati in calce dai recapiti dell’autore.
L’epoca di internet sarebbe cominciata poco oltre. Non esistevano le copisterie di oggi, non qui in provincia, e nessuna cartoleria ti faceva la tessera a scalare quando ti presentavi lì col tuo bel malloppo.
Se avevi un lavoro, due conti in tasca te li potevi pure fare. Se invece eri a carico dei tuoi, e la tua malsana idea di fare lo scrittore, da grande, diciamo che non era vista di buon occhio in famiglia, raccattare i necessari finanziamenti perché l’operazione andasse in porto poteva rivelarsi alquanto complicato, dovendo giustificare in qualche modo le ragioni della richiesta.
Io rientravo nella seconda categoria. E va aggiunto che, nel mio particolare caso, alla riuscita del piano mancava un elemento ancor più determinante, rispetto alla grana.
Scrivevo poesie sulla Smemoranda di scuola, peggio della ragazzina invaghita del principe azzurro. Ovvio che vorresti essere tu l’oggetto delle sue mica tanto segrete pulsioni, dunque ammiri con la coda dell’occhio la tua compagna di classe preferita, tre file indietro, e inizi a comporre un po’ di analisi logica anche tu. Il finale è scontato: lei non te la darà mai – e nemmeno per spirito critico verso i vocaboli incolonnati che, presto o tardi, le sottoporrai, ma perché t’informa di essere innamorata del fratello della sua compagna di banco, nonché migliore amica.
Hai presente il tipo con la moto, la testa rapata, la sigaretta eternamente accesa e un sacco di tatuaggi sparsi per il corpo? Beh, è per quello lì che ella avrebbe versato cotanto inchiostro e salate lagrime. Fratelli maggiori appartenenti a questa specie, ogni classe che si rispetti ne vanta a eserciti interi, perciò nulla di cui stupirsi. Ne sapeva qualcosa il buon Leopardi, sennò col cavolo che se ne sarebbe rimasto accovacciato e tristo dietro la famosa siepe, a rimirare l’Infinito.
Il brutto è che, ormai, sei in trappola.
La poesia, a quell’età, è come la sigaretta: inizi per gioco, poi prendi il vizio. E ti capita di pensare che qualunque, banalissima idiozia ti passi per la testa, se la metti in colonna, sia degna di essere vergata su carta.
Con le mie auto-appaganti composizioni ci avevo riempito la Smemoranda, a circa metà dell’anno accademico in corso, e cinque block notes, più un sesto in via di ultimazione. Adesso si trattava di scremarne una significativa silloge e inviarla a una casa editrice di Santi, pronta a immettere sul mercato novantacinque, e dico novantacinque!, titoli di poesia. Vuoi che a fronte di un simile numero non avrei avuto alcuna possibilità di piazzare un libro mio?
Questo avevo pensato.
Restava un piccolo dettaglio da risolvere: produrre il dattiloscritto originale. Bill Gates non aveva al momento dato segno di voler espandere il proprio impero alla sfera domestica, d’accordo, ma da che mondo è mondo un dattiloscritto lo si redige grazie all’impiego di un unico mezzo: la macchina da scrivere.
E io, la macchina da scrivere, non ce l’avevo.
A seguito di estenuanti colloqui con mamma e papà, si era raggiunto una specie di accordo. Purché la piantassi una volta per tutte di minacciare lo sciopero della fame, avrebbero acquistato la macchina da scrivere che agognavo, a condizione che il costo rientrasse nel budget.
- Con cinquantamila lire non le vendo neppure il rullo, signora. – Ci aveva redarguiti il titolare del negozio in cui mia mamma e io ci eravamo recati all’indomani, dopo averci entrambi condotti nel magazzino adiacente. Doveva essere dell’opinione che davanti a lui si fossero materializzati due poveracci provenienti da chissà quale basso gradino sociale e la discrezione dovuta al resto della clientela voleva essere un atto di educazione soprattutto nei riguardi della nostra condizione umana.
Tante grazie, mister.
- I prezzi minimi… – Aveva aggiunto – …partono dalle trecento in su. –
I sogni costano, amici cari. Dipende dalle pretese.
Vagavo sconsolato per il magazzino, una stanza quadrata poco più spaziosa di un modesto garage. Il tanfo di polvere era persistente, misto all’olio lubrificante e all’odore dei numerosi nastri accatastati un po’ ovunque, alla rinfusa.
Lei se ne stava quatta quatta sulla parte alta di uno scaffale di ferro, l’aria di una bella signora dimenticata da tutti, finché il tempo non l’aveva per decenza mimetizzata sotto strati e strati di lanugine buia.
- Scusi… – Avevo detto al mister, interrompendo l’elenco di modelli che sciorinava all’attenzione della mia irremovibile genitrice – …quella lì sopra quanto viene? –
L’uomo era rimasto a bocca aperta.
- Quella?! –
- Sì, quella. È una macchina da scrivere, no? –
- Sì, certo che lo è. Ed è anche un bell’arnese, lasciatelo dire, ragazzo. Ma è così come la vedi, senza valigetta né niente. –
- Senza valigetta scrive lo stesso? –
- Beh, se ci faccio una revisione coi controfiocchi sopra, direi di sì. Eccome. –
- Allora la prendo. Per cinquantamila lire. Son soldi guadagnati, no? Sarà lì sopra da anni e anni, a occhio e croce. –
Colpito e affondato.
- Cosa vuoi fare da grande, ragazzo? – Mi aveva chiesto, afflitto dall’esito della trattativa lampo.
Il petto gonfio, lo sguardo di mia madre che perdeva pezzi di avvenire, avevo risposto:
- Lo scrittore. –
- Male. Dovresti fare il commerciante, tu. Io fra una decina d’anni vado in pensione. Se ci ripensi, ti vendo baracca e burattini. Sennò, ripassa domani nel pomeriggio e giuro che quella vecchiaccia la farò talmente scintillare che dovrai mettere gli occhiali da sole per scriverci. –
Il giorno appresso, la bella signora tirata a lustro sottobraccio, rientravo a casa con la mia macchina da scrivere pronta all’assalto dell’editoria italiana e una risma di fogli Fabriano di cui il signore del negozio mi aveva fatto dono, in segno di felice auspicio alla mia neonata carriera. O meglio sarebbe dire: embrionale carriera.
Va detto che mi ero davvero impegnato. Non è semplice, sappiatelo, operare una selezione di quello che hai scritto, non lo è mai. È roba tua. Per dozzinale che possa a posteriori sembrarti, per quanto ridicoli fossero obiettivamente certi tentativi, il fatto di dire “questa sì, questa no” condanna qualcosa di tuo a non uscire mai dal fottuto cassetto. E costringe te a crescere.
Ne avevo scelte e ricopiate 42, una per pagina, posizionate al centro del foglio. Giustificate a sinistra, direbbe Bill.
La mia preferita s’intitolava DIMMELO CHI SEI.
Dimmelo chi sei,
perché se non me lo dici
ti picchio e me lo dirai.
Non ti posso mica ammazzare, tanto.
Se ti ammazzo,
poi,
chi me lo dice tu chi sei?
Sei forse l’Amore?
No, è impossibile.
Saresti già fuggito.
Ora: editando per partito preso e a scanso di equivoci l’ultima terzina, se io ricevessi via mail una castroneria del genere ci terrei a suggerire qualche lettura, una maniera velata affinché l’autore intenda, tra le righe, che aprire ben benino gli occhi e le orecchie al bello, invece di scrivere e basta, significa farsi un grosso favore. Ma quando uno scrive “Amore” con la “A” maiuscola, e ha la sfacciataggine, l’incoscienza di darlo per buono, è il cestino. Istantaneo, senza sensi di colpa, senza spiegazioni.
Vai a fare in culo, creatura, tu e l’Amore. Quanti anni hai? Diciassette? E rollatici le canne, con le tue poesie dattiloscritte, dammi retta, ti divertiresti assai di più.
La ProvarePerCredere Edizioni, a nemmeno quindici giorni dall’invio per posta delle tre copie richieste da bando, aveva preso in seria considerazione la mia proposta. Il pacco recapitato quel giorno dal postino, intestato a me, conteneva una brochure illustrativa sulle numerose attività e collane a cura della casa editrice, il libro di una poetessa ligure da loro scoperta (e le mie poesie, lo penso tuttora, erano infinitamente superiori alle sue, figuratevi quindi che razza di merda dovevano essere), una lettera e un contratto di edizione.
Il mio cuore esultava. Un contratto di edizione! Sarei entrato nell’Olimpo della poesia contemporanea! I miei versi, eternati su carta, sarebbero stati sviscerati parola per parola negli atenei, virgola dopo virgola. Che trip!
Mi girava la testa e… e non ci vedevo granché bene. L’emozione, il sangue pompato in circolo di gran carriera, mi stavano annebbiando la vista. Soprattutto giù, dove nei contratti ci sono le parole piccole. Ecco, lì proprio non mi riusciva di leggere, nossignori.
Vediamo intanto cosa dicono della mia opera, mi ero allora detto, passando di corsa alla lettera.
Avevo battezzato la raccolta “Cancro”, il mio segno zodiacale. Del titolo, tuttavia, la missiva non faceva menzione. Nella prima parte, in compenso, il direttore responsabile della ProvarePerCredere Edizioni si dichiarava nell’obbligo di rendermi nota una certa crisi nel mercato editoriale. Con agghiacciante naturalezza, passava a illustrarmi poi che un editore, privo degli appoggi economici di cui godono i grandi gruppi, non poteva permettersi di rischiare ingenti capitali su nuove firme, su gente che non poteva, in parole povere, garantirgli le vendite minime.
Ma non erano loro i Santi, non erano loro quelli determinati a pubblicare novantacinque, e dico novantacinque!, titoli di poesia?!
Sì, per essere loro erano loro. Soltanto i soldi dovevano essere i miei.
Per la precisione: un milione e mezzo di vecchie lire. Non esattamente una mancetta.
Fra l’altro, il pragmatico e mai in passato coperto direttore responsabile esordiva con un “Caro Gianluca” in grassetto. Mio padre riceveva a cadenza quindicinale buste contenenti lettere che attaccavano così. Le stesse che arrivavano al dirimpettaio.
Un bel giorno i due s’incrociano nell’androne condominiale appunto per prendere la posta prima di risalire in casa e si accorgono di avere in mano buste identiche. Per un istante si fronteggiano, quasi a volersi riconoscere in qualità di membri di una loggia massonica, poi l’altro scoppia a ridere e chiede a mio padre se, di quindici giorni in quindici giorni, vince anche lui un premio esclusivo, a patto che faccia subito un ordine. Ovviamente, la risposta è sì. Da lì a confrontare le lettere appena giunte è un attimo: uguali come le famigerate due gocce d’acqua. Tranne in un dettaglio. “Caro Fiorello”, mio padre, “Caro Ernesto”, il dirimpettaio.
Percepire il medesimo meccanismo comunicativo nei termini di una lettera che accompagna un contratto editoriale, nel quale si esige il versamento della somma di un milione e cinquecentomila lire a una casa editrice intenzionata a stampare e distribuire novantacinque, e dico novantacinque!, titoli di poesia, è una sensazione piuttosto inquietante.
Avrei alzato la voce, oh se l’avrei alzata!
Infilato il foglio nel rullo, e assunto un tono abbastanza sportivo, scrivevo al caro direttore responsabile della ProvarePerCredere Edizioni che non ero affatto disposto a pagare per ottenere una cosa che avevo già. Quelle poesie erano le mie poesie e non trovavo sensato foraggiare un editore che, di mestiere, avrebbe dovuto foraggiare me.
Un paio di settimane più tardi, altro pacco, stavolta più piccolo. Una busta, direi, delle dimensioni di quelle del dirimpettaio e di papà.
Era cambiata l’offerta, mi veniva chiesta solo la metà dei soldi.
Nonostante pensassi che contro rispondere sarebbe stato offensivo innanzitutto nei miei riguardi, avevo comunque inserito il foglio, posizionato i margini e controllato se il cursore dell’inchiostro fosse sul nero.
Ci sono gesti che senti il bisogno di compiere al di là dello scopo che hanno.
Il bisogno cui il mio gesto rispondeva era scrivere. Non sapevo cosa. Una poesia nuova, magari, la prima in assoluto che avrei battuto interamente a macchina, ma benché la tastiera fosse stata oliata di fresco, le dita faticavano ad affondare nelle lettere.
E nessuna parola bastava a raccontare perché.