Seconda parte dell’intervista inedita al regista Gianni Martucci. Se te la sei persa, recupera la prima parte!
Passiamo al poliziesco. Ne dirigi solo uno: Milano difendersi o morire (1978).
Tentai di farne altri, ma senza successo. Comunque quello fu un periodo molto bello della mia vita perché il film andò benissimo. Andò bene nonostante una grande sfortuna! La cosa che peggiore che può succedere ad un film, la più grande slavina qual è? Partire senza una distribuzione è tremendo, ma cosa ancora peggiore è cambiare distributore in corso d’opera. Questo accadde con il mio film e ciononostante andò bene, per cui la soddisfazione fu doppia.
Milano difendersi o morire gode anche di un cast di un certo rilievo…
Si, piuttosto buono. Marc Porel era reduce del grande successo del film televisivo Il marsigliese e fu grazie a lui che riuscimmo a chiudere il progetto. Poi c’era George Hilton in un ruolo per lui anomalo, dato che lui era noto per ruoli ambigui ed erotici. Stava cercando di buttarsi nella commedia in quel periodo, grazie a Luciano Martino che aveva prodotto tutti i suoi film precedenti, genere per cui non era adatto a mio avviso. Troppo poco brillante. Quindi gli misi sti baffoni e gli feci fare il commissario. Poi c’era Al Cliver che ancora cavalcava l’onda del successo de Il saprofita e lui davvero lo stravolsi sul piano estetico. Il suo personaggio si chiamava…Dominò! (ride). Una figura un po’ da… Sai che io quel film l’avrei voluto girare in bianco e nero. Volevo fare un noir. Comunque, quello è un film che mi è venuto bene.
E su Anna Maria Rizzoli che mi dici? Nel cast, si mi è permesso di dire, è un po’ l’anello debole.
Si, ti è concesso in toto. Era in assoluto il suo primo film, ma in quel periodo stava su tutti i rotocalchi. Era famosa perché era famosa. Non aveva fatto nulla. Era stata fidanzata con Walter Chiari, poi con un altro. Era una personalità da gossip. Non ebbe, neanche in seguito a Milano, un grande successo perché, nonostante fosse una bellissima donna, non aveva carisma, né spessore. Altre, come lei divenute attrici per caso, sono poi rimaste perché avevano fascino o persino talento qualche volta. La Rizzoli era vuota, nessuna scintilla. Una statua. Imbastirono anche una storia tra me e lei, non ricordo su quale giornale. (sorridente, borbotta qualcosa dietro al sigaro). Il problema è che nel film ha un ruolo centrale; se fosse stato più piccolo… Mi è stata imposta dal produttore. Invece, di chi non mi stancherò mai di parlare bene è Barbara Magnolfi, che nel film interpreta la sorella minore. Lei era davvero brava e avrebbe potuto avere un grande seguito, anche perché era una bellezza non tipicamente italiana e poi, lei si, brava. Secondo me l’ha rovinata il rapporto con Marc Porel, dato che dopo che si è messa con lui ha iniziato a spippettare, a drogarsi. Si sono anche sposati, ma è durata poco, fino alla sua morte. Poveraccio, che poi è andato a morire a Casablanca. Non ho idea di cosa faccia adesso, ma mi è sempre dispiaciuto, perché si è bruciata così quando poteva davvero fare tanto. Comunque io sono particolarmente fiero della scelta dei caratteristi e ce ne sono molti nel film: Guido Leontini, Osvaldo Natale… Tutti personaggi che io ricordavo venire dall’avanspettacolo, che era il cascame della rivista e che debbo dire è stata una fucina poco sfruttata dal cinema italiano. Anche Lino Banfi, che si vanta di aver fatto avanspettacolo, ora che c’è stata la rivalutazione dire d’averne fatto parte da un imprimatur di prestigio, ha vissuto l’ultima, decadente, fase. Perché non ha l’età, mica per altro. Questo stuolo di caratteristi si era davvero fatto le ossa nell’avanspettacolo, e alcuni prima ancora nella rivista. Tutti ex-capo comici, spalle e interpreti di grande esperienza. Luca Sportelli, che ha co-scritto il film, ad esempio, è stata una grande spalla dell’avanspettacolo.
Horror, poliziesco e ora passiamo alla commedia. Il genere per cui, in Italia almeno, sei più ricordato. Cosa ricordi del tuo esordio alla regia: La collegiale (1975).
Innanzitutto io mi affacciai al cinema con velleità artigianali più che artistiche. La mia ambizione è sempre stata quella di diventare un artigiano cinematografico, anche più acclamato di quanto lo sia già. Vorrei essere ricordato per uno che i film li sa confezionare, li sa far stare in piedi, insomma, film che funzionino nel loro genere e che continuino a funzionare negli anni a venire. La collegiale fu un progetto messo in piedi e poi distribuito, questo si che ce l’aveva la distribuzione, da Maggi. Erano tre i fratelli Maggi: avevano prodotto Il colosso di Rodi ed erano grosse figure del cinema italiano dell’epoca. Un giorno uno di loro venne sul set, facendosi anche un bel tratto, dato che stavamo girando a Venezia, a Iesolo per l’esattezza. Tutta la produzione in subbuglio per l’arrivo di Maggi, mentre io stavo girando. Ad un certo punto mi chiama. Io vado e vedo che su un tavolo è stata dispiegato tutto il piano di lavorazione, che erano queste gigantesche mappe. “Martucci, che scena stai a girà oggi?” “La 65” rispondo. Va, guarda il mappone, vede la 64, la 66. “Martù, qua me ce devi mettere o un culo o na scoreggia.” Me lo ricorderò sempre. Culo o scoreggia. Io rispondo: “A rischio di andarmene subito, io la scoreggia non ce la faccio a metterla. Ce metto il culo, va bene?” Ok. Detto fatto. Chiamo la Femi Benussi, ragazza deliziosa e brava attrice e le spiego la situazione. La scena in questione era una telefonata. Le faccio: “Senti Femi, facciamo che quando squilla il telefono tu esci dalla doccia coprendoti alla meglio, anzi, scoprendoti alla meglio con la scusa di coprirti.” (ride)
Hai avuto problemi con Sofia Dionisio, la protagonista, rispetto alle scene di nudo?
Da questo punto di vista non ho mai avuto problemi con le attrici con cui ho lavorato. Io sono un tipo che ispira fiducia. Quindi, un po’ si rendevano conto che la loro fiducia era ben riposta, un po’, diciamo, non sono un porco conclamato. Con lei semmai ho avuto il problemino che ogni tanto si prendeva troppo sul serio. Aveva velleità, forse, anche fuori dalla sua portata e un forte complesso rispetto alla sorella. Cercavo di spiegarle che si doveva lasciar andare, che anche le parti più serie andava recitate, sempre, con un filo d’ironia. “Ok, stai soffrendo delle pene d’amore, ma non c’è bisogno di immedesimarti alla Actor’s Studio. Leggerezza, non stiamo facendo Ninotchka” (ride)
Ah… Lubitsch. Ti piace?
Come può non piacere? Sono andato a vedere ieri la versione restaurata di Essere o non essere…mamma mia. Che Lubitsch è un grande maestro lo sappiamo tutti, ma ogni tanto ci scordiamo il perché. Poi la capacità di prendere in giro un regime che si trovava al potere in quel momento usando tutti gli ingredienti della commedia degli equivoci, della pochade….
Sapendo però cambiare registro all’improvviso…
Assolutamente. Momenti intensamente drammatici misti a sequenze da commedia. Caricatura, satira, suspense… Lubitsch riesce a tenere tutti i fili senza mai farli stridere. La suspense poi… Perché quel film uno lo poteva girare tutto come un thriller; la costruzione narrativa che mette in piedi si presta anche ad un film puramente thriller. Come nella scena in cui cercano la spia tra i sedili del teatro o l’arrivo delle macchine. Hai visto come hanno truccato quelle auto? I ruoli che si interscambiano. Una cosa simile, gestita però solamente sul piano dell’azione, quindi senza humour, la si può vedere in Dove osano le Aquile con Burton che fa finta di essere un ufficiale nazista. Anche quello, gran film.
La lista è lunga… Il colonello Von Ryan ad esempio.
Ah si, lo conosco, Frank Sinatra. C’è anche una giovanissima Raffaella Carrà in quel film. (ride)
Tornando a bomba alla tua filmografia. La collegiale ebbe un notevole successo, come anche il tuo successivo film: La dottoressa sotto il lenzuolo (1976). Viene naturale chiedersi come mai dopo un inizio così finisci per dirigere un film, di media, ogni due anni.
Il successo di questi due film non era tanto da ricondurre al regista, ma al filone. Per cui non passavi tu come vincente, ma il micro-genere. Secondo, io non ho mai fatto parte di parrocchie. Non mi sono legato, come hanno fatto molti, ad una squadra come poteva essere quella dei fratelli Martino, per cui potevi contare su un flusso lavorativo continuo. O eri un regista di una generazione precedente, per cui lavoravi grazie ad una reputazione consolidata negli anni, ma se eri un giovane dovevi in qualche modo unirti ad un gruppo. Tutti e cinque i film che ho fatto me li sono dovuti sudare, in qualche misura ripartendo ogni volta da capo. Prendi la scuderia dei Martino, che poi quando ho iniziato io a lavorare aveva il monopolio di un certo tipo di cinema: sono tutti imparentati. Michele Massimo Tarantini, ad esempio, è il nipote di Luciano Martino. George Hilton è il marito della sorella di Tarantini tra l’altro e poi c’è il fratello di Luciano, Sergio. Che poi Tarantini non sa proprio girare. Master e primi piani, master e primi piani. Era una macina.
Parliamo de La dottoressa sotto al lenzuolo. Cosa ricordi di Karin Schubert, la protagonista?
Innanzitutto la Schubert ha iniziato molto dopo a fare i porno. Con lei ebbi un buon rapporto come con quasi tutti gli attori. Anche quando facevo l’aiuto regista, davano a me il compito di parlare o talvolta convincere gli attori a fare determinate scene. Per esempio, persuasi io Adolfo Celi a fare Ragazza tutta nuda assassinata nel parco, film che scrissi io. La Schubert veniva da un successo clamoroso con Barbablù con Richard Burton. Grazie a quel film , scelsi di metterci lei.
Che tipo era?
Incredibile. Per prima cosa, nonostante avesse già una certa età, riusciva ad essere fresca e rilassata anche dopo una notte di baldorie. La mattina era sempre fresca e radiosa. Se non per i lividi che le lasciava l’amante che la picchiava regolarmente, che andavano coperti con il trucco. Lei frequentava tutto un giro composto da mezzi delinquenti. Gente squallida che, poi, penso sia stata la ragione per cui non ha avuto la carriera che meritava. Lei era molto bella, di una bellezza che rimane impressa, forte. Caratteristica fondamentale, prima ancora delle capacità recitative. Se non hai una fotogenia forte, un’importanza visiva, non vai da nessuna parte. La Schubert poi era sia bella di corpo che di faccia, non necessariamente le due cose vanno insieme ed era anche una persona malleabile, prendeva suggerimenti e consigli. Ma lei poi entrò anche nel giro della droga. Purtroppo il successo di molte attrici è dipeso anche dai loro compagni. In senso anche positivo: prendi la Cardinale, che stava con Cristaldi.
Parlando sempre di cast. La dottoressa ha un gruppo di attori molto diversi da La collegiale. Qui, essendo una commedia sexy anche più pura, ritroviamo molti volti noti di questo cinema. Alvaro Vitali. Gastone Pescucci…
Si, perché c’era di mezzo Mino Loy. Pescucci lo scelsi al posto di Gianfranco D’Angelo, che non potevo vedere, con quella faccia da bavoso. Non ho capito perché abbia avuto tutto il successo cha ha avuto. Mi dava proprio di sporco. Scelsi Pescucci, che veniva dal cabaret e mi sembrava più adatto. Alvaro Vitali penso non si rendesse pienamente conto di quello che gli stava succedendo, faceva film a catena di montaggio. Era anche bravo, diciamo, a fare quello che faceva eh, ma ovviamente doveva tutto all’aspetto, al fatto di essere grottesco e brutto.
Dei tuoi cinque film qual è quello che preferisci?
Il poliziesco. Perché sono stato libero di fare più cose, di muovermi con maggior scioltezza seppur all’interno di alcuni restrizioni: la Rizzoli imposta alcune caratteristiche legate al genere ma, alla fine, diciamo che quell’atmosfera noir che io cercavo di tirar fuori è rimasta. Anche il cast funziona. Marc Porel era bravo e a tal riguardo mi ricordo che le sue scene le ho sempre dovute aggiustare al montaggio perché lui recitava alla francese, con dei tempi molto lunghi, prendendosi lunghe pause di riflessione. Sottolineava l’aspetto introverso del personaggio.
Facciamo un pò di ordine: su molti siti risulta essere di Milano.
Io sono assolutamente romano, per una casualità sono nato ad Ancona, perché nacqui in viaggio. Inoltre non sono dell’46, come risulta un po’ ovunque, ma dell’42.
Parliamo della tua attività di sceneggiatore. Attività che inizi con Ragazza tutta nuda assassinata nel parco (1972) di Alfonso Brescia.
Il primo approccio è stato da sceneggiatore, cosa inevitabile perché inizi con lo scrivere delle cose che vuoi fare e a proporle. Porti in giro quello che hai scritto con la speranza che qualcuno apprezzi. In quel periodo mi sono immerso nelle situazioni più diverse, da quelle più becere a quelle invece un po’ più nobili, diciamo così. Inizialmente il film si doveva intitolare Prater Shock e si svolgeva a Vienna, si doveva svolgere li. Lo scrissi con Peter Skerl, persona incredibile e come me, grande appassionato di cinema. Un apolide che sapeva parlare tranquillamente cinque/sei lingue tra cui il svedese. Io e lui abbiamo fatto anche dei lavori a Stoccolma…. Quindi scrivemmo questa storia che si chiamava Prater Shock perché una parte chiave della storia si svolgeva nel parco giochi di Vienna, Prater appunto. Il primo delitto si svolgeva nel tunnel dell’orrore infatti. Dipingemmo la città in maniera molto misteriosa, come luogo di spie, di traffici illeciti… Tentammo di realizzarlo ma senza riuscirci, passa del tempo ed io riciclo la sceneggiatura e la vendo. Questo un paio d’anni dopo. Il titolo, Ragazza tutta nuda assassinata nel parco tentava di simulare la testata di un giornale. Il film fu girato a Madrid alla fine. A produrre era Luigi Mondello ma chi a fatto si che venne fatto fu Alfonso Brescia, il regista, a cui piacque molto. Lui si firmava Al Bradley, ora è morto, che fece qualcosa come sessanta/settanta film. Un regista da battaglia diciamo. Mi fece fare delle modifiche dato i cambi di location ma in linea di massima la storia è rimasta quella. Il film, che ripeto era una coproduzione con la Spagna, gode di due grandi partecipazioni: Adolfo Celi e Philippe Leroy.
Raccontami de Il fiore dai petali d’acciaio (1973).
Si, quel film lo diresse Gianfranco Piccioli, che faceva coppia con Berardi: erano due produttori che insieme fondarono la Parva Cinematografica. Piccioli aveva velleità da regista e mi pare avesse già diretto un film precedentemente. La sceneggiatura che proposi, inizialmente, si chiamava La catenina. Poi feci anche l’aiuto regista. Onestamente, rivisto nel tempo, non mi entusiasma. Martucci viene distratto da un signore che si avvicina pacioso e con discrezione cerca di catturare la sua attenzione. Si stringono la mano e il tipo prima di andarsene chiede dove può trovare un certo Daniele. Martucci gli indica una porta, al di là dell’androne. Girandosi verso di me: “Oddio, come si chiama sto tipo?! Mannaggia la memoria! Sesani, Riccardo Sesani!” (Riccardo Sesani è il regista di Buona come il pane, Jocks e Una donna da scoprire). Di che stavamo parlando? Ah, si. Rivedendolo l’ho trovato moscio. Non raggiunge il suo massimo potenziale e, poi, ad un certo punto si è incartato. In origine era più semplice, ma anche più efficace, l’idea che rendeva tutto il film un flashback. Poi in sceneggiatura c’era questo elemento della catenina, cioè questa catenella si andava a conficcare nello scarico della doccia. Mano a mano che l’assassino veniva ricattato da questa entità misteriosa e la polizia stringeva il cerchio intorno a lui, non riusciva a fermare l’acqua che nella vasca rigurgitava e tornava su sporca di sangue. Un’idea che rimarca lo stato psicologico del protagonista, nonché efficace stratagemma di suspense. Dovetti cambiare molte cose di quella sceneggiatura, in primis perché disturbava l’idea del flashback: c’era una sorta di avversione nei confronti di questa cosa. Poi, vollero cambiare il titolo per sfruttare il successo del film di Dario Argento, L’uccello dalle piume di cristallo. Secondo le intenzioni iniziali, e se l’avessi diretto io, ci sarebbe stato un maggiore connubio tra commedia e giallo. Tra l’altro ispirandomi a, perdona il paragone, proprio Lubitsch. Il film non mi garba, diciamo.
Che mi dici de Il giudice e la minorenne (1974)?
Quello è un altro film che scrissi per un altro regista di Milano, Franco Nucci. Il titolo originale era La legge è uguale per tutti e anche qui poi feci l’aiuto. In quel momento a Milano c’era un sindacotra i più apprezzati, Aniasi, e Franco Nucci lo conosceva, ci era amico; fummo presentati e facemmo questo film. L’idea era di questo giudice integerrimo che cade in una trappola e si trova suo malgrado invischiato in una situazione che mostra la sua ipocrisia. Era un’idea giusta, che anticipava anche tanti scandali che sarebbero avvenuti più in là. Per essere un film che è stato scritto nell’71/72…non c’erano state tante cose ancora. Anche qui non è stato sfruttato tutto il potenziale. Il regista ha il sacrosanto potere di fare ciò che vuole. Tu puoi anche riempire la sceneggiatura di indicazioni e intenti, ma il film è suo e anche la responsabilità.
Immagino ci siano stati molti progetti che si sono avvicinati alla realizzazione e che poi sono evaporati. Uno che ricordi in particolar modo?
Ce ne è uno a cui sono molto affezionato. Un film di fantascienza che sono riuscito a fare. Fantascienza che però si svolge tutta in un contesto terreno, diciamo realistico. Adesso l’ho completamente stravolto e si trova in fase di traduzione a Los Angeles.
Un accenno di trama?
È una storia che, partendo dal presupposto fantascientifico di presenze aliene sulla terra, si evolve in maniera realistica. Tutto ruota intorno ad un esperimento segreto finanziato da case farmaceutiche che, usando un elemento alieno e trasportandolo al nostro sistema natura, può curare delle malattie. Ovviamente la situazione sfugge di mano. Diciamo che partendo da una nozione fantasiosa, ma che non si può del tutto escludere, viene costruita una vicenda dai connotati attuali e verosimili. La storia si svolge su un’isola del Pacifico e il simbolo metaforico della storia è un faro. Adoro i fari perché sembrano sempre guardare al futuro.
Eugenio Ercolani
Estratto da MILANO… DIFENDERSI O MORIRE (1978)