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Gianni Priano: Nessuno può avere di più

Da Narcyso

Gianni Priano, LE VIOLETTE DI SAFFO, Il ponte del sale 2011

Gianni Priano: Nessuno può avere di più
Questo libro, a suo modo straordinario per chiarezza espositiva, attualità dei temi e invenzione narrativa, ricostruisce la storia di 4 educazioni, in tempi in cui l’espressione – oggi banale – “educare equivale ad essere educati”, non era certo di moda.
A raccontare, poi, è il poeta/insegnante Gianni Priano, il quale evidentemente appartiene a quella categoria di insegnanti/intellettuali che si guardano bene dall’ergersi a un Augusto Monti di turno, conoscitore, piuttosto, dei mali moderni della scuola messi a confronto, a capitolo iniziale, con i prolegomena del romanzo di formazione di Bianciardi, uno dei quattro candidati, insieme a Paolini, Pavese, Sbarbaro, alla pratica di una forma di autoeducazione, con tutte le pene e le gioie che questo comporta.
Queste biografie attraversano, dunque, un necessario imborghesimento, se per borghesia vogliamo intendere come la pensava Pasolini, “non una classe sociale, quanto una vera e propria malattia”.
L’attraversamento delle proprie menomazioni affettive, è in parte radicato in una sorta di scompenso a vivere (malattia, follia, disagio) in parte motivato da un vivere sociale “perturbato”, dalle stampelle educative di cui sempre l’essere viene dotato – o subisce – nel corso del suo apprendistato.
Questi scompensi, in verità, fanno la grandezza di queste vite, ma ciò non toglie nulla al drammatico e beffardo “mal di vivere”, al sentirsi sempre ai margini dentro la propria stessa realizzazione che, se pienamente goduta – non certo in termini di autogratificazione, quanto, piuttosto, nella pienezza di un progetto d’arte – niente può contro la banalità del vivere comune, a volte pensata come possibile ancora di salvezza, altre volte aborrita e negata quasi in un istinto autodistruttivo.
Valga il vivere “oltre”, “altrove”, dei versi di Sbarbaro: “Quando attraverso la città la notte/io vivo la mia vita più profonda”; o la forza ancestrale del mito espressa nell’opera di Pavese; la stanchezza pasoliniana nei versi rivolti a Montale: “Non ho banda, Montale, sono solo”; la ribellione esplosiva di Bianciardi.
Questi modi di stare al mondo sono le formule difficili e contorte di un adattamento, di una sopravvivenza al male – spesso un male ancestrale. Formule di una difficile autoeducazione che Gianni Priano sembra professare e preferire: “Non somigliare .- ammonivo – a tuo padre” (Saba), versi letti da un Pasolini in apprendistato come esperienza di illuminazione per comprendere e segnare la distanza da un padre “difficile” da cui lui e la sorella saranno costretti a scappare.
Nella narrazione di queste esperienze agli albori, l’essere appare come atrofizzato, esplode in tutta la sua potenza creativa nella capacità di esprimere un’arte, barcolla e spesso fallisce invece, nella perpetuazione di un modello educativo e affettivo su cui pesano i retaggi di un’educazione fallita per eccesso o per sottrazione di presenza.
E’ questo male a cui bisogna sottrarsi, “diffidare non già dalla parola educazione ma dall’abbinamento di questo termine con altri. Diffidare, pedagogicamente, di ogni educazione a qualcosa”
Bianciardi, Pasolini, Pavese, Sbarbaro, insegnanti per necessità e non per vocazione, finiscono così per delineare e mettere in pratica un loro personale modo di intendere l’educere, proprio in contrapposizione a quanto uno Stato, conformemente alle esigenze del potere politico di turno, chiede all’insegnante/funzionario.
Ma insegnare è il mestiere più difficile di tutti, ammette Bianciardi: lui sa benissimo che “quel lavoro (…) non si impara altrimenti che facendolo. Ci si improvvisa insegnante: si va ad insegnare come si va al cinema. Si entra, ci si siede e si guarda cosa succede. Un piccolo particolare, un battito di ciglia, un alunno che guarda dalla finestra e da lì parte la lezione”.
Insomma: “il disgusto per la censura implica la messa in discussione del paternalismo”, come nel caso di Pasolini. Si dice, in effetti, che al di là dei programmi, il metodo è libero e il riconoscimento di questa libertà ha sempre costituito la miccia per far esplodere il sistema all’interno – se non tutta la struttura, quantomeno una classe -. Senza mai dimenticare, inoltre, che riappropriarsi del pensiero dei grandi pensatori, degli artisti e dei poeti, liberandolo del sottobosco asfissiante dell’apparato, costituisce di per sé esperienza di trasmissione, mai demodé, di una libertà veramente mostrata attraverso la sua luce, l’esperienza del libero pensare e del libero creare.
Il giovane Pasolini, per esempio, sublima nell’esperienza dell’insegnamento giovanile, pulsioni erotiche e paternità rimossa intuendo successivamente che il rapporto tra maestro e discepolo non poteva svolgersi in un rapporto di reciproco amore. “No, io dovevo mettermi in disparte, ignorarmi, dovevo essere mezzo e non fine”.
“L’educatore Pasolini, il tafano socratico dell’Italietta, ha individuato nel narcisismo l’avversario più pericoloso e infido”.
Ma in che modo Pavese ha sublimato la pesante dichiarazione del suo maestro Augusto Monti dedicatagli al termine del corso di studio?: “che non siate nella vita gli autori di nessuna incompiuta, che non siate dei falliti”.
Evidentemente, più che un augurio, questa frase suona come la profezia di un fallimento; che nell’esperienza educativa di Pavese si realizza nella forma di una esponenziale sottrazione, nella constatazione di un fato: “Lo sgorgo di divinità lo si sente quando il dolore ci ha fatto inginocchiare”.
Vivere, insomma, “è un mestiere che contempla – se preso sul serio – anche il fallimento”. E l’arte non salva, essendo l’arte sempre qualcosa che vive un rigo sotto il tema principale della vita e l’artista, al posto di “un mazzolino di segmenti”, sceglie “le violette di Saffo” che “crescono ai bordi dei sentieri appena dietro a Spotorno”, come fa Camillo Sbarbaro; il quale sa di aver scelto di abitare la terra ombrosa della vita, quella che non aspetta altro che il sopraggiungere della notte, dove si apre l’altro mondo dell’immaginazione, della “vita vera”.
“La letteratura vale meno della vita”; “Sbarbaro sa che ciò che conta davvero: ‘E’ uno qualunque; ma al suo primo passo una madre gioì, una donna gli tremò tra le braccia, un figlio lo piangerà. Nessuno può avere di più”.
Nessuno può avere di più: forse l’arte tutta, che di tutta questa vita si nutre famelicamente per proclamare al mondo il suo fatuo splendore.

Sebastiano Aglieco


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