Giorgio Chinaglia se n’è andato. Così, in silenzio. Senza fragore, senza “vaffa”, senza polemiche. Una dipartita dimessa, la sua, in palese antitesi con una vita bruciante e intensa, colorata di quell’irruenza nel fisico e nell’anima. Long John, uno dei simboli più vividi di quei tumultuosi anni Settanta, che trasportarono nel calcio tutte le ansie di una società in fermento, pronta all’esplosione, decisa a combattere pallone su pallone. Proprio come Chinaglia, centravanti di quella Lazio che vinse nonostante uno spogliatoio più simile ad una polveriera che a una combriccola di compagni (e c’è da dire che di simile a un “compagno”, tra quelle mura, c’era poco o niente). Figlio d’emigranti, prototipo grezzo di quel Bobo Vieri che decenni più tardi sfondò, da pioniere, la barriera dell’avanspettacolare calcio-varietà, quello fatto di pubblicità, belle donne, lustrini e paillettes. Chinaglia il leader, Chinaglia l’uomo in bilico, sempre in precario equilibrio tra la legalità e l’illegalità. L’ariete, il marcantonio pronto a duellare con lo stopper di turno, il centravanti che rifiutava il fioretto, abituato com’era a farsi largo a forza di sportellate.
Il celebre "vaffa" di Chinaglia al CT Valcareggi, durante i Mondiali di Germania del 1974
Un’esistenza fatta di pochissime linee morbide e di molti spigoli, dentro e fuori dal campo. Un percorso irto di spine, che non abbandonò Long John neanche dopo che gli scarpini furono appesi al chiodo, neanche dopo che quelle basette si accorciarono e quella chioma lasciò spazio alla pelata, quasi come un qualsiasi distinto signore di mezza età. Un’esistenza che gli regalò scontri ben più duri, in ambito finanziario. Torbida la sua parentesi da uomo d’affari, affari che in realtà non si rivelarono mai tali. Perché la vita non era come l’area di rigore, dove Long John maramaldeggiava. Anche se avrebbe desiderato fare le fortune dei colori biancocelesti, oltre che in campo, anche da un ufficio da dirigente. In quegli ambiti però, l’ingenua e schietta veemenza di Chinaglia non si rivelò arma vincente, tutt’altro.


Giorgio Chinaglia con Luciano Re Cecconi
Come quando, per motivare un talentuoso ma troppo timido Vincenzo d’Amico, preferiva usare calci del sedere al posto delle ramanzine. Lui, uomo che non amava mezze misure, leader di una squadra in cui le mezze misure latitavano. Niente dolcezze, niente abbracci, ma scontri a muso duro, litigi quotidiani in seduta d’allenamento e divisioni tra clan. Una santabarbara quella Lazio, un covo di teste calde e un po’ matte guidate dalla saggezza di papà Maestrelli, che sapeva tenere a bada quella prole così discola, quando non ci si metteva la vita stessa, a frenare gli impulsi (come nel tragico caso di Re Cecconi). Intemperanze e dissidi che in campo si trasformavano in coesione per un obiettivo comune, raccogliendo tutte le aspettative di gloria sotto quella maglia numero 9 extralarge, che scaraventava in rete pallone e attriti accumulati durante la settimana.

Ora che non c’è più, pare andarsene, insieme a lui, una fetta d’esistenza, nel ricordo di uno sport e di un mondo tanto lontano e tanto schietto. Un mondo che paradossalmente se ne va in silenzio, con tutte le sue luci e tutte le sue ombre, subissato dalla plastica degli spot pubblicitari, dei lustrini, e delle paillettes.

(Pubblicato sul “Fondo Magazine” del 3 aprile 2012)



