Il nostro universo – si legge in alcuni testi sapienziali – è già tutto presente nella sua estità e non vi è evoluzione se non apparente. Passato, presente, futuro sono categorie, o meglio illusioni, create dall’uomo per dare un senso a quanto in apparenza e in loro assenza, non ne avrebbe. La realtà è come la pellicola di un film. Noi ne vediamo solo un fotogramma, che è la realtà in cui ci muoviamo. Ma la pellicola di un film contiene già tutta la storia, tutta contemporaneamente presente, che tuttavia risulta inconoscibile se se ne considera un unico fotogramma. E’ questa esattamente la percezione che ne abbiamo.
La nostra difficoltà nel vedere “l’intero”, la totalità e la nostra condanna a doverci affidare all’esperienza – vale a dire all’illusione – è tutta qui.
Due sono gli strumenti che possediamo per superare, o aggirare, questo impasse: l’arte e la percezione del Sacro. Perché sono le due dimensioni in cui l’Essere esiste come Forma, come assoluto. Anzi, l’arte tende al Sacro. Poiché “tutte le arti tendono alla parola e la parola al silenzio.”
In quella sfera il tempo nel suo scorrere eracliteo non esiste e i dormienti si destano. E’ in questo stato dell’essere che davvero “vediamo”. E qui l’assolutamente discreto coincide con l’assolutamente continuo.
Come dice Carlo Diano: “Unità che risolve le parti e ne eleva l’organicità a totalità, dalla sfera analitica della ragione a quella intuitiva dell’intelletto sfera nella quale esse si compenetrano pur rimanendo se stesse come le idee nel kosmos noetos di Plotino, e fanno ciascuna rispetto all’altra da centro e da limite. Unità che è propria della coscienza e fa del corpo spirito – L’unicità a sua volta risolve in sé lo spazio e fa della cosa un assoluto = l’essere di Parmenide –” (Appunti per Forma ed evento, 1950-51)
In Blumenbilder,Natura morta con fiori ( Introduzione di Andrej Silkin, Passigli 2013) come nel successivo (in ordine compositivo) Paradiso, Giorgio Linguaglossa non isola il fotogramma, ma lo assolutizza e ne fa un archetipo. Un simbolo del tutto. Che la visione sia quella dell’assolutamente continuo è cosa già presente nella struttura che lega le diverse parti. Ciascun testo inizia con puntini di sospensione e i punti fermi sono, dall’intero testo, completamente banditi. Perché non esiste interruzione del Discorso.
Il tutto si svolge in uno spazio plotiniano – che mi ha molto ricordato la stanza luminosa in cui giunge alla fine del suo viaggio l’astronauta nel film di Kubrick 2001 Odissea nello spazio. Un luogo che è l’universo intero. Un universo che si ripiega su se stesso. Questo universo è il salone di una casa, in cui si muove l’elusiva Dama dai capelli purpurei (la porpora imperiale) e dai multiformi aspetti insieme ai multiformi aspetti in cui si manifesta il suo compagno/amante. E’, del resto, una Natura morta quella di cui parliamo.
“Sono trascorsi venticinque anni dalla stesura di queste composizioni. Ora esse sono defunte veramente. Adesso soltanto posso consegnarle ai lettori perché sono parole morte di un autore anch’esso scomparso tanto tempo fa da rendermelo, oggi, ad un tempo, familiare ed estraneo, irriconoscibile e intimo…”, sono le prime parole di Linguaglossa che introducono la bella presentazione di Andrej Silkin.
Appunto, parole morte. Come, se non quando tutto si è compiuto, si può mai attingere a quel luogo misterioso in cui si forma la Parola, poetica e creatrice? Come, se non nell’incommensurabile distanza di un’assenza è possibile vedere e poi de-scrivere quel che è invisibile nell’immediatezza dell’esperienza, cioè il simbolo?
L’ho detto già altrove, la poesia di Linguaglossa è una poesia aristocratica, molto lontana dalle mode italiane correnti. A differenza di chi crede che per scrivere qualcosa di nuovo oggi si debba infarcire i propri testi di quella koinè ignorante e limitata oltre che becera, pensando che così si suoni dissacranti o “moderni”, ma in realtà ci si mostra solo del tutto digiuni di ogni tecnica o esperienza di cosa davvero significhi scrivere poesia, questa è davvero una poesia rivoluzionaria. Per i motivi cui ho accennato, ma anche per la sua estraneità all’Italietta poetante e asservita alle mode.
Perché questo sulfureo Canzoniere, questo poema circolare, che coniuga incredibilmente D’Annunzio, Bisanzio (non dimentico mai, nemmeno per un istante, che Linguaglossa vi è nato) il simbolismo russo, Aleksandr Blok, un manieroso 700 rivisitato nelle illustrazioni degli anni ’30, il Dark Gothik e Guido Gozzano, non altro è che uno di quei rari accessi al magma in cui si generano miti e simboli. Difatti le immagini traboccano con violenza o tenerezza, di colori, di odori, di travolgimenti e fra le trine e le parrucche scorre un rivolo di sangue rappreso. Io non ci vedo affatto un’allegoria della morte, né tanto meno del tramonto, ma un ordinato universo self-contained, autonomo e indipendente.
Il linguaggio è sempre, come altrove in Linguaglossa, potentemente visionario e generatore di visioni. La ricca bizzarria di quelle visioni può essere resa solo con la scelta di termini obsoleti, preziosi, rari, ed è in questo mosaico di tessere d’oro, di lapislazzuli, di malachite, di pietra di luna, di ambra e sardonica che si consuma un dramma solo apparente. Poiché non può esservi dramma fuori dell’evento. Tutto nasce e s’annulla nel sorriso della Dama, che apre e conclude, in un eterno ritorno, lo spazio di Blumenbilder
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… non scacciare le figurine della mia insonnia
non lo consente la lingua degli dèi
sul davanzale della finestra sfioriscono le viole
bruciate dal gelo invernale…
il tranquillo terrore
del tuo guardinfante che volteggia leggero
al notturno di Chopin, mi turba…
noi ciechi di ebrezza e dissipazione amiamo
il nitore del passo marziale e l’insonnia,
la corona dei tuoi capelli purpurei lentamente
ondeggia sulle nude spalle come una caravella
con tutte le sue alberature…
non chiedermi la parola che ti possa salvare
in questa notte di pioggia e di tedio regale
assopita sul guanciale del mio feroce sarcasmo
sono assetato di immoralità e immorale
ho indosso il costume screziato del pesce
e mi smarrisco tra le tue squame azzurre
e ti guardo come il piccolo Manuel Osorio De Zuniga
guarda l’infinito dal fondo del ritratto
di Francisco Goya…
la forbice degli anni allontana i tuoi capelli
dai miei occhi vitrei, il tremore si irrigidisce
sul fondale dell’apparenza, sul crinale dell’aria
non chiedermi se in questa notte di ardori,
come i figli di Cheope, narrerò al sovrano,
per tenerlo desto, la storia dello scriba nel
palazzo invernale, del tradimento dell’amata
e della vendetta che ne seguì…
ho indosso l’abito dell’erba
che resiste al vento e alla pioggia…
sotto il gran candeliere delle stelle ci siamo noi
mia amata: arsenici, prussici
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… questa stanza è una rete di immagini…
la porta socchiusa e le finestre
ermeticamente sprangate; i divani,
le consolle hanno una posizione neutrale…
v’è una parentela fra i tendaggi
e i linguaggi della polvere, ragnatela di collisioni
incompiute… i diaframmi delle immagini
riflettono l’indistinzione del mio occhio vitreo…
come per il cieco la notte è già un vedere
così esiste un ecosistema delle immagini,
una cronistoria delle immagini isotopiche
è già esistita…
la nostra angoscia assume la forma
d’un pallone invisibile che ci palleggiamo
con le nostre mani inadatte a dei lavori
servili…
le tue mani così inabili
a impugnare le cesoie del giardiniere…
(C) Francesca Diano RIPRODUZIONE RISERVATA