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Giornalismo e mondo: il gap fra parole e cose

Creato il 15 dicembre 2012 da Angelonizza @NizzaAngelo

Qualcuno fin troppo sprovveduto potrebbe già obiettare sul titolo. Si dirà che chi scrive fotografa la realtà, la riproduce, quasi la scrittura fosse un’attività mimetica rispetto a ciò che sta là fuori. Non è così. E, vi prego, non perché la penna sia maliziosa e desideri trasfigurare il racconto, falsificarlo, annullare l’originario rapporto di corrispondenza fra parole e cose. Il giornalismo non è il mondo perché il linguaggio non è ciò di cui dice.

La chiave sogni di Magritte

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Mi spiego. Il nostro parlare, entro cui occorre collocare la testualità scritta, non disponde di un catalogo di segni correlati con un fatto, una cosa, un significato chiaro e distinto, individuato così e così una volta per tutte. E’ la vita arbitraria delle parole, che non sono costrette a significare alcunché. L’aveva detto bene Saussurre ai suoi allievi, durante i Cours ginevrini. Rimanendo terra terra, non esiste alcuna legge naturale e necessaria che assegni alla paroletta ‘cane’ il senso di animale quadrupede amico dell’uomo o all’astratto ‘babbo natale’ (non me ne vogliano i bimbi) il valore di un personaggio leggendario, impalpabile, calibrato oggi dentro l’ordine del discorso consumistico. Insomma, il linguaggio non serve a descrivere la realtà così com’è. Con le parole noi interpretiamo il mondo, gli diamo un taglio, lo creiamo. Il linguaggio è soprattutto dynamis, capacità, potenza loquace e si concretizza in atti performativi. Fare cose con le parole, non semplicemente riportarle su un taccuino. Fin qui, la filosofia. Ma, badate, le larghe categorie del pensiero speculativo sono utili a capire l’angustia di un singolo settore. Dunque, il giornalismo, che è un modo di dire e scrivere e raccontare del panorma tutt’attorno, lungi dall’essere scambiato con una prassi finalizzata a ritagliare un pezzo di realtà vera. Le colonne parlano dei fatti, lo fanno sulla base di fonti e documenti, ma non sono quei fatti. E proprio perché non lo sono, la posta in gioco per un bravo giornalista è tenere a bada il gap fra parole e cose. Evitando di impelagarsi in questioni eziologiche (verità assoluta vs. falsità indecente), ma considerando l’opportunità di buttare giù un testo coeso grammaticalmente e coerente con l’argomento su cui verte. Il resto è la felicità dell’atto (cfr. John Langshaw Austin).



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