di Rina Brundu. Se le accuse che avrebbe mosso il forzista Renato Brunetta al giornalista Giovanni Floris, sulle specificità del suo contratto Rai (contratto da libero professionista + garanzie da contratto a tempo indeterminato) fossero confermate, la datata crociata del falco berlusconiano sarebbe pienamente giustificata e si potrebbe forse dire che per la prima volta in Italia qualcosa si sta muovendo nel senso buono anche nel mondo del giornalismo.Un mondo, questo, che amo tantissimo, che frequento ormai da una ventina d’anni fino al punto di essermi letteralmente inventata il concetto di giornalismo-online.
Ma proprio perché è un universo che conosco bene non posso negare di essermi sempre interrogata sulle modalità peculiari del suo esistere (specialmente in Italia). Il mio punto di partenza era dato dall’interna convinzione che giornalisti si nasce non si diventa. Giornalisti si nasce perché è una di quelle professioni – molto simile alle professioni che si impongono in noi in virtù dei nostri talenti (quale quella del musicista, del cantante, del pittore, etc) – che chiedono qualcosa in più. Una di quelle professioni che da un lato richiedono sacrificio, dall’altro comandano uno spirito coraggioso, libero, informato, capace, knowledegeable, pronto a tutto pur di difendere il suo punto di vista e assolutamente allergico alle prassi clientelari (specie in campo politico) così comuni nell’Italia che abbiamo sempre conosciuto.
“No!” mi fu detto tempo fa da qualcuno la cui capacità giornalistica era direttamente proporzionale a quella neuronale: “Giornalista è chi il giornalista fa!”. Per certi versi questa considerazione spiega pure tutto il resto. Spiega perché l’esame per diventare professionisti era una sorta di scherzo della domenica dove l’unico fattore “intimidating” per dirla con Lorre & Prady erano i fogli “college-ruled” sui quali occorreva svolgere il temino di rito; spiega perché i soliti noti e i figli di Tizio Caio e Sempronio diventavano in automatico giornalisti sopraffini quasi che il gene giornalistico fosse colonna portante del loro specialissimo DNA; spiega perché infiniti altri personaggi assolutamente validi finivano in oscuri uffici stampa a comporre haiku di seconda categoria; spiega perché il giornalismo politico è diventato in Italia la stampella del partito o della corrente di riferimento; dulcis in fundo spiega perché il giornalismo, da mestiere che richiede sacrificio e coraggio, si è trasformato in professione appettibile, da salotto, nonché un modo molto facile per fare soldi.
Naturalmente si potrebbe continuare all’infinito su questa linea ma cui prodest? Il punto è che – a mio avviso – mercé il terribile status-quo appena descritto l’Italia non ha mai prodotto grandi giornalisti, sicuramente nessuno valido abbastanza per giustificare i compensi sontuosi di cui spesso leggiamo. Se io dovessi fare un solo nome di un giornalista italiano che ha davvero meritato quel titolo, per infiniti motivi, non avrei dubbi nel fare il nome di Giovannino Guareschi, seguito a ruota dalla Fallaci. Il resto, se non silenzio è fondamentalmente noia, almeno tra i grandi nomi (di fatto sono i piccoli che spesso hanno fatto una differenza, sovente sacrificando la vita al mestiere). Dunque fa bene Renato Brunetta a proseguire nella sua personalissima campagna, fermo restando che quella metodologia operativa la dovrebbe applicare anche a tutti gli altri campi professionali all’insegna del motto “dove cojo cojo”. Cominciare dal giornalismo non è comunque una cattiva idea; diceva Oscar Wilde che “In America il Presidente regna quattro anni e il giornalismo governa all’infinito” ed è noto che noi nell’importare pratiche viziate non siamo secondi a nessuno.
Featured image Oriana Fallaci.