“Sono una nonna, una mamma, una moglie, una donna qualunque, come se ne incontrano tante per la strada. Sono una persona qualsiasi, che nessuno noterebbe, che nessuno saprebbe chi sia, e se, dopo quarantacinque anni di silenzio sofferto, pesante dentro di me, non avessi sentito che non potevo più tacere perché avevo un dovere nei confronti di tutti, non sarei qui. Parlare della Shoah e del campo di sterminio di Auschwitz.”
Liliana Segre, durante una conferenza agli studenti per la “Giornata della Memoria” (flickr.com)
Liliana Segre è stata una tra le poche vittime del nazismo a riuscire a sopravvivere alla prigionia nel campo di concentramento di Auschwitz. “La mia famiglia era una famiglia ebraica agnostica, non particolarmente religiosa, né inserita nel contesto della comunità ebraica, che contava, come oggi, circa 35mila ebrei in tutta Italia. Nel 1938 una legge fascista declassava questa gente a cittadini di serie B. Così come lo erano diventati professori universitari, scienziati ed umanisti, non importava fossero tali. Tutte queste persone sono tornate in Italia portando Premi Nobel in patria. Ma gli altri? Beh gli altri, dai bambini di prima elementare fino agli universitari, professori, funzionari pubblici, niente. Per loro nessuna salvezza. Nessuna protesta, nessuna presa di posizione, nell’indifferenza generale del popolo.”
Le leggi razziali e l’incomprensione di una bambina. “Io mi ricordo quando mio papà mi comunicò che non avrei più potuto frequentare la scuola: cercava di spiegarmi che non avevo fatto niente di male, non ero stata espulsa dalla scuola io, in quanto io; eravamo stati espulsi noi, solo in quanto ebrei, dalla società civile. Era civile quella società? Non lo so, noi non eravamo stati espulsi. Io così sono stata obbligata a cambiare scuola e le mie compagne di un tempo mi indicavano con un dito dicendo quella lì è la Segre, non può più venire a scuola perché é ebrea. Erano bambine come me, non sapevano delle leggi razziali, sentivano a casa quello che dicevano su di noi. Così non venni più invitata alle loro feste, e nei giardini dove prima andavo a giocare non ero più la benvenuta.”
Dal momento in cui il terrore degli ebrei perseguitati aumentava a dismisura, essi cercavano aiuto o riparo in qualche altra abitazione, di qualche famiglia coraggiosa, pronta ad ospitarli. Così Liliana per alcuni mesi fu ospitata dai Pozzi e dai Civelli. Ma la “felicità” era lì a pochi attimi, con volontà diverse: con carte d’identità false decisero di provare ad entrare in Svizzera, dalla parte di Viggù verso Saltrio. Arrivarono al confine in una notte buia e fredda, e purtroppo, trovarono dei contrabbandieri pronti a venderli. Così, la sentinella che li vide in quel bosco li portò al Comune di Arzo, dove l’ufficiale svizzero-tedesco li ricevette e li respinse. Furono costretti a far rientro in Italia e vennero imprigionati nei carceri di Varese e Como, prima, e poi a San Vittore di Milano. Liliana Aveva solo 13 anni.
Alcuni sopravvissuti nel campo di sterminio di Auschwitz (mirror.co.uk)
La partenza per Auschwitz. “Un pomeriggio entrò un tedesco e lesse un elenco di nomi, tra i quali c’erano anche i nostri, di coloro che si dovevano preparare per partire il giorno dopo, con destinazione ignota. Oggi siamo vivi in pochi, rispetto quei ottomilaseicento. Dalla stazione Centrale di Milano, caricati sul treno a calci e pugni, partimmo il giorno dopo, su un vagone bestiame, senza acqua né luce, solo con un pò di paglia ed un secchio per gli escrementi. E’ stato un “viaggio-tragedia” a dir poco orribile, che ti toglie la possibilità, la voglia ed il desiderio di vivere, distruggendo forza fisica e psichica. Un viaggio durato una settimana e in quelle piccole soste quando il treno si fermava in qualche piccola stazione, le nostre voci uscivano come lamenti da quei piccoli finestrini schermati, dai quali entrava anche il freddo dell’inverno.”
L’arrivo nel campo di sterminio di Auschwitz e l’ultimo saluto al padre. “Arrivammo ad Auschwitz, stazione, binario morto, stazione di arrivo per tutti, di tantissimi trasporti di centinaia di migliaia di persone che arrivarono dall’Europa occupata dai nazisti, per la sola colpa di essere nati. Apparvero davanti a noi una spianata, coperta di neve sporca, e tanta, troppa, gente. C’eravamo noi e poi uomini, prigionieri vestiti a righe che non avevamo mai visto, e le SS con i loro cani, ben addestrati, poveri cani. Uomini da una parte, donne dall’altra. Rimane indelebile, come fosse ora, il ricordo di quegli ultimi sorrisini che facevo a mio papà, dopo avergli lasciato la mano. Non l’ho mai più rivisto. Ci misero in fila e scelsero i più giovani, che andarono alla prima selezione. Ci incamminammo verso Birkenau, il campo di sterminio femminile: una città di sessantamila donne. A perdita d’occhio si vedevano solo baracche grigiastre e neve sporca, donne prigioniere, con teste rasate vestite a righe, che portavano pesi. Venivano picchiate, spinte, obbligate a compiere fatiche mostruose. Fatiche inutili.”
Il disprezzo dei soldati SS ed il numero 75190. “Fummo denudate, all’interno della prima baracca, e fummo private di quei pochissimi beni che avevamo ancora con noi. Mentre i soldati sprezzanti ci irridevano, fummo costrette ad esibire le nostre nudità. Nudità offese, umiliate ed obbligate. Saranno state eccezioni, ma per fortuna in quel momento non ci fu nessuno stupro, nessuna violenza sessuale, forse perché proibito dalle Leggi di Norimberga. Eravamo solo degli essere spregevoli. Ci fu rasata la testa e mentre i capelli cadevano in terra noi non eravamo più noi. Ci tatuarono un numero sul braccio e fu indescrivibile anche il male fisico. Rivestite con stracci, la divisa da campi, dovevamo ripararci dall’atroce freddo, in qualche modo. Eravamo già delle schiave, non avevamo più un’identità. Quel numero sul braccio è ancora intriso nella carne, nel cuore e nell’amica. Il mio numero è 75190 ed i miei figli sanno già che quando morirò sulla mia tomba ci dovrà essere questo numero prima del mio nome. Questo numero ha condizionato profondamente tutta la mia vita ed ha condizionato anche i miei figli ed miei nipoti che mi chiedono: Nonna, perché hai tatuato quel numero?”
Le condizioni fisiche di alcuni deportati (meteoweb.eu)
L’odore dolciastro nell’aria ed i forni crematori. “C’era un odore dolciastro nell’aria e noi “nuove” non avevamo idea da dove provenisse. Le prime prigionieri che incontrammo erano francesi e ci spiegarono, a noi ragazze italiane appena arrivate, cos’era quell’odore che permeava tutto il campo: si trattava di carne bruciata. Sì, era carne bruciata. Da quella ciminiera in fondo al campo escono fiamme o fumo, bruciano le persone. Non vedrete mai più le persone che avete lasciato in stazione, perchè a quest’ora saranno state già cremate o passate per il camino. Pensavamo di essere finite in un manicomio e che loro fossero pazze: non avevamo capito ancora dove ci trovavamo. Ci consigliarono di imparare il tedesco velocemente, perché chi non rispondeva a dovere alle guardie rischiava di essere spedito nei forni o nelle camere a gas. Il tedesco serviva per dire il numero quando ci veniva consegnata la zuppa, per il cambio dei vestiti, una volta al mese, e per obbedire a tutti i comandi. Per tutto, insomma. Non dovevamo mai guardare in faccia gli aguzzini, era proibito incrociare il loro sguardo, dovevamo renderci invisibili ed obbedire solo agli ordini.”
La “fortuna” di diventare operaia per la Union. “Pochi giorni dopo, data la mia altezza e la mia giovane età ebbi la fortuna di essere scelta per diventare operaia nella fabbrica Union. Essa era del gruppo Siemens ed in tempi di pace produceva automobili, ma in tempi di guerra armi. Eravamo Stucke, pezzi in tedesco. Lì per lavorare, senza limiti di orario. Venivamo svegliate da una bastonata in giacigli dove “dormivamo” in cinque o sei, vestite, perché se ci fossimo svestite le “compagne” ci avrebbero rubato i vestiti. Dormivamo anche con gli zoccoli in testa, ci avrebbero rubato anche quelli. Di mattina ci svegliano e subito dopo venivamo portate fuori sulla neve per l’appello, che durava anche due ore, finché non tornavano i conti ad i militari nazisti. Dopo l’appello ci incamminavamo per andare alla fabbrica e non potrò mai dimenticare la musica diun’orchestrina che ci accompagnava a lavoro: violiniste costrette a suonare motivetti allegri. Le ragazze, mentre suonavano, piangevano.”
La vita nei campi: la vita, la morte e la sopravvivenza. “Venivamo sputate e disprezzate dalla Hitler-Jugend, i ragazzi della SS giovanile. Da adulta, però, ho capito che quell’odio che provavo nei loro confronti si era trasformato in pena. Per me questo è stato fantastico, una fortuna immensa di essere vittima, rispetto all’essere complice di una simile tragedia umana, quella loro. Proseguivamo camminando per strada e arrivavamo in fabbrica per lavorare tutto il giorno. Lavorai per un anno come operaia schiava ed era una fortuna lavorare lì, perché eravamo al coperto, mentre altre erano obbligate a lavorare sotto la neve, vestite di stracci, senza riparo. Erano lavori insensati, fatti apposta per uccidere. Tante di noi non ce l’hanno fatta. Al rientro nelle baracche guardavamo i forni crematori e ci dicevamo Quale sarà il nostro destino? Una volta nelle baracche ci portavano a fare la doccia: la facevamo tutte insieme, in quaranta, cinquanta donna, con un filo d’acqua, ghiacciata o bollente, tenendo in mano i vestiti perché se li avessimo lasciati negli spogliatoio ce li avrebbero rubati. Era una questione di sopravvivenza. La giornata era finita e la sera ci aspettava un momento “fantastico”: la cena. Ci consegnavano una razione di pane nero, accompagnato da un cucchiaino di margarina e da uno di marmellata, magari acida, ed ogni tanto una rotella di salsiccia, che ci avevano detto di non chiedere di cosa fosse fatta. Noi mangiavamo avidamente.”
Uno scatto di bambini nei lager (en.auschwitz.org)
Usare i ricordi e l’immaginazione per fuggire dall’orrore. “Noi volevamo vivere ed era per questo che non si poteva guardare quel panorama di mucchi di cadaveri scheletriti, nudi, fuori dal crematoio, pronti per essere bruciati. Io non li guardavo, non guardavo il triplo filo spinato, le sentinelle… non guardavo nessuno. Non volevo essere lì, ed ero da un’altra parte: ricordavo un vecchio film, un romanzo, una canzone, una di quelle stupide che avevo sentito. In una tra le tante selezioni a cui partecipai fui fermata per una cicatrice all’appendice, ero stata operata anni prima. Il medico mi fermò ed io pensavo che a causa di quella ferita mi avrebbe spedita a morire. Ed invece no, il medico parlò con altri colleghi del grande segno che mi rimase sul corpo dicendo che lui l’avrebbe fatta meglio, più sottile. Mi lasciò andare ed io ero incredibilmente felice. Dietro di me, però, non potrò dimenticarla mai, una mia compagna, che poverina, fu fermata. Sul lavoro una macchina le aveva tranciato via due dita. Poverina, però, lei aveva coperto la mano con uno straccio, ma era nuda e gli assassini la videro subito. Non mi voltai. Ero viva. Lei andava a morte per la sola colpa di essere nata ed io ero diventata una prigioniera dura come una lupa affamata, che voleva vivere e sopravvivere, a tutti i costi. ”
La fine della guerra e la “marcia della morte” verso la libertà. “Dopo qualche tempo si cominciarono ad udire i rumori della guerra che si avvicinava. Erano i russi, che avevano rotto le linee tedesche ed arrivavano ad Auschwitz più in fretta di quanto i nazisti potessero immaginare. Ed un giorno, di colpo, arrivò un ordine di evacuazione ed uscimmo così in fila, avviate sulle strade della Germania, per compiere quella marcia detta la marcia della morte. Pochi, infatti, arrivarono a destinazione. Ci allontanavamo da Auschwitz ed in lontananza vedevamo dei fuochi perché i nostri assassini avevano deciso di non far trovare nulla dei resti di quell’orribile tragedia, il campo di sterminio. Fecero saltare le strutture, ma non fecero in tempo a distruggerle tutte perché i russi arrivarono prima. La nostra marcia verso la Germania fu un viaggio incredibile. Durata giorni e giorni. Dopo anni ho visto su una cartina il percorso che feci in quelle condizioni a piedi d’inverno. C’era di tutto su quella strada, erano tanti i morti lasciati lì, senza tomba. Nessuno si appoggiava a nessuno, era molto difficile trovare forze ed andare avanti. Non trovammo nessun civile nelle cittadine in cui arrivavamo, nessun offerta di un bicchiere di acqua o un pezzo di pane; e così noi ci buttavamo sui resti di spazzatura trovati per strada, mangiando qualsiasi schifezza: torsoli di cavoli marci, ossa già spolpate, bucce crude di patate. Eravamo orribili, donne-scheletro, bocche sporche, disposte a tutto per arrivare prima di un’altra a trovare qualcosa da infilare nello stomaco.”
La testimonianza, il ricordo e l’insegnamento alle generazioni future. “I cittadini tedeschi avevano paura. Uscivano di casa, si mischiavano a noi. Avevano paura dei russi e della loro vendetta. Si caricavano valigie ed averi e scappavano, lasciando le loro case, in cerca di una zona americana. Le nostre guardie, i nostri assassini, che si spogliavano e si mettevano in borghese. Questa è stata una visione incredibile. I loro cani venivano cacciati, e le bestie addestrate, andavano e tornavano, continuamente. Le SS rimanevano in mutande, buttando via armi e divise, mescolandosi anche loro tra i civili, tra di noi. Noi li guardavamo esterrefatti. Io li avevo odiati, tutti, in maniera indistinta, con tutte le mie forze. Mi avevano portato via tutto e li avevo odiati talmente tanto, che forse è proprio quello il sentimento che mi ha mantenuto in vita. Si avvicinò a me un comandante dell’ultimo campo in cui ero, non ricordo neppure il nome. Mi buttò ai piedi la sua pistola ed io… io ebbi la tentazione fortissima di prenderla. La tentazione più forte della mia vita credo. Mi dissi Ora raccolgo quella pistola e gli sparo. Mi sembrava il giusto epilogo, dopo aver lasciato la mano di mio papà ed ero rimasta sola. Sola. Sarebbe stata legittima la conclusione della tragedia che avevo vissuto, ma credetemi, fu un attimo. Capii che io non avrei mai potuto uccidere, per nessun motivo, nessuno in nessun momento della mia vita. Io avevo scelto sempre la vita, e la vita non va d’accordo con l’odio. Bisogna decidere: o odio, sinonimo di morte, o vita. Non ho raccolto quella pistola, perché ho scelto la vita. Da quel momento sono stata libera.”
La testimonianza di Liliana Segre, reduce dall’olocausto nazista nel campo di sterminio di Auschwitz.