Cari amici,
mentre tutta l’Europa guarda con viva attenzione al nuovo Governo che si andra’ a costituire, i mercati aspettano l’apertura delle piazze per sentenziare “about the feeling” del nuovo prescelto.
Sara’ Mario Monti la piu’ grande opportunita’ che ha questo Paese di uscire dal pantano, oppure rimarra’ vittima dei retroscena d’interesse e spartizione che, troppo silenziosamente, vanno a realizzarsi nelle sedi di partito? Cerchiamo di capire insieme i motivi di alcune parole dei leaders di Governo e opposizione, partendo dalla Lega Nord:
“Oggi siamo su posizioni diverse” afferma Maroni, posizionando definitivamente la Lega nel ramo d’opposizione al Governo tecnico che sara’ guidato da Monti. Leggendo meglio le parole di “Bobo” Maroni, in realta’ sembra che il processo di allontanamento Lega-PdL sia arrivato al definitivo capolinea. Tutto inizio’ se ricordate, con la paventata abolizione delle province, in cui il Ministro Calderoli si espresse contro, senza trattenere i suoi malumori a riguardo.
Province e piccoli comuni sono infatti per la Lega grande serbatoio di voti e di poltrone, cosi’ come lo e’ per tutti i partiti “geotipici” (Autonomie, Minoranze Linguistiche) che hanno base piu’ o meno ampia (non in tutta la Nazione) esclusivamente in determinate porzioni di territorio: senza di esse sarebbe difficile “pilotare” attraverso la propaganda politica l’elettorato o influenzare la vita della popolazione al punto da costituirne parte integrante del tessuto. Pensate al caso della scuola con simbologia padana, un connubio “partito-istruzione” deprecabile. I partiti devono servire le istituzioni, ed essi si rifanno ad una immagine culturale che e’ trasversale a caratteristiche, origini, culture comuni e del territorio.
Sradicare le Province significa perdere il controllo del territorio, se per la Lega (incassato il colpo) bastera’ ridisegnare l’approccio verso il proprio elettorato, per il PdL sara’ la perdita dell’alleato che nel nord, porta piu’ voti all’ormai ex “Casa delle Liberta’” . Tuttavia, se poniamo sulla bilancia che il PdL non ha piu’ un assetto politico/organizzativo definito, e attende di presentarsi alla prossima tornata elettorale con un nuovo “quadro dirigente” e il famoso “candidato premier” nominato dai tesserati PdL; il braccio di ferro con la Lega diventa a favore di chi ha oggi piu’ deputati in Parlamento.
Scaricare l’ex alleato scomodo per ridefinire la squadra e cavalcare (magari con qualche “eminenza grigia”) il Governo tecnico che avra’ da lavorare sull’assetto di Stato e Istutuzioni, sembra una via d’uscita molto meno tortuosa di una ulteriore battaglia da combattersi contro un Parlamento e una Nazione ormai esausti. L’opinione pubblica e i mercati, d’altra parte, hanno gia’ risposto che “non s’ha da fare” pena il default.
Insomma, cari amici, se le dimissioni rappresentano l’atto formale di rinuncia a governare, queste non vanno intese come la ritirata de la “longa mano” dalla stanza dei bottoni.
Vedremo nei prossimi articoli di capire meglio i perche’ della retromarcia di Antonino Di Pietro, altro elemento degno di cinque minuti di riflessione.