31 maggio. Milano.
Milano e il cielo senza colore, il lastricato antico attorno all’Arco della Pace e la gente che parla il mio dialetto. Milano è un po’ casa. Specialmente quando torno dai viaggi. Stazione Centrale oppure la barriera dell’autostrada con le sue luci abbaglianti nelle sere in cui hai fatto tardi perché sei andata chissà dove a vedere il ciclismo.
“Sono alla barriera” significa che sono quasi arrivata.
Anche per i corridori, oggi, questa città è un po’ casa. Sei giri di circuito e poi il Paradiso che ha il profumo, le voci, i suoni di un arrivo amplificato. Milano è tutto quello che hanno sognato in questi giorni. Milano è la fine. Milano è qui, ora. Corso Sempione che si ferma, un po’ di sole che fa capolino, la gente attaccata alle transenne. E le grida ad ogni passaggio, l’amore per tutti, senza conoscerne il nome. Questo abbraccio è per ognuno di loro. Dal gruppo scappano Iljo Keisse e Luke Dubrige. Vanno come treni in quel circuito cittadino che sembra strano veder libero dal traffico. Scatta un semaforo all’angolo della via. Rosso, giallo, verde. Per una volta resta ignorato.
Li riprendono. No, forse no. Quel poco di sole tra gli alberi e i palazzi illumina i loro avambracci lucidi di sudore. Si danno il cambio. E’ un inseguimento all’ultimo respiro. Ultimo giro. Il fiato del gruppo, il boato della città che si ferma per guardare loro. Per guardare quegli istanti.
Il vincitore è solo uno. Iljo Kessie passa per primo la linea bianca. L’ultima prima di tornare. Ma il ciclismo è strano, è cattivo e tenero, e fa si che la fatica, il dolore e pure le speranze condivise uniscano. Dopo la curva i due si abbracciano. Sudati, con ancora addosso l’adrenalina. Primo e secondo si abbracciano. Quella linea conta solo per le classifiche. Quello che conta è qui. La paura di essere ripresi, il traguardo così vicino e così lontano.
Quello che conta è qui. I bambini che si aggrappano alle transenne troppo alte e chiedono una borraccia, tendono le mani. E i ciclisti li accontentano sorridendo alla stanchezza: le lanciano, gliele passano da sotto la grata. E poi la gente che fa da passerella e ad ognuno batte una pacca sulla spalla e dice: “Bravo! Bravo!”
Gli eroi sono tutti loro.
Ci sono quelli che si abbracciano, si salutano, si danno la mano.
Milano, sei la fine del viaggio. Di questo lungo, incredibile, viaggio spacca gambe. Coriandoli che restano appesi agli alberi come festoni di carnevale. Bambini che corrono e gridano e fanno festa su questo asfalto che è un oramai è un tappeto rosa. Gente che resta vicina senza accorgersene.
Quello che conta è qui. Un affetto incontenibile che forse non si spiega. O forse si spiega benissimo. E’ solo bene che ritorna. Mai un sorriso negato, anche dopo le tappe più terribili, quelle che, dopo l’arrivo, non vorresti più incontrare nessuno per ore e ore a parte il massaggiatore. Mai una parola sgarbata, anche dopo le sorti rovesciate come calzini.
Bene che torna. Come un uragano.
E’ quasi calda, stanotte, l’aria della Brianza. L’aria di casa. C’è quella solita malinconia da combattere e forse lo si può fare solo scrivendo. Anche la luna, lassù, nel cielo buio, è rosa. Sembra quasi un segno. D’altronde, credo che la strada per noi sia in qualche modo già scritta.
Noi dovremmo avere il coraggio che basta per seguirla.
Davvero.