Funziona in Germania, ma in Italia no, eppure siamo noi ad averne più bisogno, oggi più che mai. L'apprendistato, punto forte della riforma Fornero sulla disoccupazione giovanile, non ha dato i risultati sperati.
L'autunno scorso, forse travolti dalle eclatanti dichiarazioni che avevano accompagnato la Riforma – dalla “noia” del lavoro a tempo indeterminato alla negazione del posto di lavoro come diritto – avevamo dato poco risalto alle apprezzabili iniziative di contrasto alla disoccupazione giovanile che il ministro Fornero aveva messo in atto: apprendistato come contratto di inserimento primario, riferimento all'apprendimento duale, ispirazione al modello tedesco.
Certo non si trattava di idee prive di difetti, soprattutto pensando a quali prospettive potesse dare un contratto di inserimento triennale nel braccio di ferro con le imprese – PMI in testa – che spingevano per avere contratti di lavoro più flessibili e durata possibilmente pari all'arco temporale dei loro business plan, ma applicate con la dovuta convinzione, aspettandosi un momento di ripresa economica, avrebbero potuto dare gli effetti sperati.
Non è stato così, purtroppo, anzi. Il tasso di disoccupazione giovanile negli ultimi 12 mesi è aumentato in modo allarmante, di ben tre punti percentuali, ma quel che è peggio è che se nel Nord del paese l'aumento è stato tutto sommato contenuto (+0,8 punti), è spaventoso il dato che registra il Meridione (+ 3,8 punti) il cui tasso di disoccupazione ha raggiunto il picco del 41,1%.
Spontaneamente ci si domanda, perché?
La colpa non è da attribuire all'apprendistato: mentre da noi il “modello tedesco” griffato Fornero decimava la forza lavoro giovanile, il vero modello tedesco in Germania creava posti di lavoro per un milione e mezzo di giovani tedeschi e non.
Secondo il centro studi della Confederazione nazionale dell'artigianato e della piccola e media impresa (CNA), come riportato da Dario Di Vico sul Corriere della Sera (pagina 39 del 22 settembre), sono ben dodici gli ostacoli che hanno decretato il fallimento dell'apprendistato all'italiana.
Anzi, il motivo in sé è uno solo, vale a dire l'assurdo iter burocratico a cui è tenuta una PMI per assumere un apprendista, e che in tutto viene a costare ben 3.500€ in più all'anno, iter che possiamo riassumere in 12 tappe ridondanti e decisamente poco fluide:
- invio della comunicazione telematica dell'assunzione al Centro Provinciale per l'Impiego;
- invio (in aggiunta) della comunicazione tramite raccomandata a/r con firma in originale del datore;
- creazione della figura referente aziendale per la formazione (con tanto di test d'esame in alcune regioni);
- rilascio della dichiarazione di assunzione e del contratto di lavoro;
- visita medica;
- registrazione telematica nel Libro Unico del Lavoro;
- sottoscrizione del Piano Formativo Individuale tra apprendista e impresa;
- autocertificazione, da parte dell'impresa, di capacità formativa;
- registrazione dell'attività formativa nel Libretto Formativo del Cittadino;
- certificazione e attribuzione della qualifica finale del punto precedente
- obbligo di frequentazione da parte dell'apprendista di almeno 120 ore di corsi esterni in tre anni;
- dichiarazione aggiuntiva da parte dell'impresa di non beneficiare di incentivi o, in caso contrario, quantificarli per il relativo controllo INPS, pena, dulcis in fundo, la perdita degli sgravi fiscali attribuiti a chi assume apprendisti.
Assurdità? Masochismo? È giusto dire che non in tutte le regioni il percorso burocratico ha queste dodici tappe, ma bisogna aggiungere che, e qui veramente la vicenda ha del fantozziano, l'elenco presentato da Di Vico è un arrotondamento per difetto.
Ora che la panacea apprendistato per sfortuna o per demerito è stata abbandonata, si è parlato di alternanza per rilanciare l'occupazione giovanile.
Non è giusto lasciare nemmeno un condizionale dubitativo, in questo caso: continuando su questa rotta politica di autoconservazione e di miopia, anche quest'ultimo tentativo è destinato al fallimento.