Rita-Atria-Partanna
La mafia è una rete inestricabile di menti diaboliche difficile da comprendere. Perché, superato un ostacolo, ne compare un altro. Eliminata una testa spuntano altre teste come le meduse della mitologia greca. Perciò il pentimento di Giovanna Galatolo, figlia di Vincenzo, capomafia dell’Acquasanta di Palermo, boss supremo dell’Arenella e del quartiere Vergine Maria, è un fatto veramente straordinario. Perché risveglia un passato in cui la mafia fu potente e in cui una famiglia, quella dei Galatolo, appunto, organizzò l’eliminazione del generale dalla Chiesa, il fallito attentato all’Addaura contro Falcone, e altri misfatti non meno gravi, come il controllo dei traffici al porto e il sistema degli appalti al Cantiere Navale di Palermo.
Insomma i Galatolo sono stati, al pari dei Riina, esecutori e responsabili dei fatti di mafia che hanno investito il mondo criminale e politico di Palermo. Senza uomini come loro né “Totò u curtu”, né “Binnu” Provenzano, avrebbero potuto avere vita facile. Sono stati il terreno della mala pianta, essendo anche loro male piante. Un mondo dentro il quale è certamente difficile vivere o convivere. Ma i Galatolo sono anche il filo di Arianna che può consentire di afferrare il bandolo di una storia lontana, che aiuterebbe a meglio capire gli ultimi decenni della nostra vita di siciliani offesi e martoriati. Basti pensare, ad esempio, al fatto che, secondo le dichiarazioni di Angelo Fontana, cugino di Giovanna, nel 1991 le sorelle Patrizia e Giovanna Galatolo che abitavano in un palazzo adiacente alla via D’Amelio, dove salteranno in aria Paolo Borsellino e la sua scorta, dovettero traslocare in fretta su consiglio di Salvatore Madonia perché era in preparazione la strage del 19 luglio 1992. Una strage nella quale si intrecciano Intelligence italiana e mafie locali, volontà politiche e progetti criminali per il futuro di Cosa Nostra.
Il 1992-’93 fu un biennio orribile. Nel ’92, il 12 marzo fu ucciso Salvo Lima; il 23 maggio Falcone con la sua scorta; il 19 luglio Borsellino e la sua scorta; il 17 settembre Ignazio Salvo. Nel 1993 seguirono gli attentati il 14 maggio a Maurizio Costanzo; il 27 maggio a via dei Georgofili, con annessa strage. Il 27 luglio ci fu poi la strage di via Palestro, l’indomani parlarono le bombe a piazza San Giovanni Laterano e a San Giorgio in Velabro; il 15 settembre fu ucciso don Pino Puglisi e il 31 ottobre ci fu il fallito attentato allo stadio Olimpico di Roma. Non sono fatti completamente chiariti anche perché il cuore degli attacchi è la capitale d’Italia, con tutto il suo significato di valore simbolico che lo riguarda. Almeno nell’immaginario mafioso.
Che la figlia di un boss decida di parlare per tutelare gli interessi della figlia più piccola non è dunque cosa da poco. Questa madre spera di costruire per lei un futuro diverso da quello che ha visto prodursi in quel microcosmo dove è cresciuta suo malgrado. Il fondo Pipitone. Un quartiere generale per Cosa Nostra. Da qui partirono gli ordini per uccidere Rocco Chinnici, responsabile di avere creato il primo pool antimafia, ed altri servitori dello Stato, dopo le battaglie condotte da Cesare Terranova e da Gaetano Costa.
Ciò che più colpisce rispetto all’entità delle tragedie è il fatto che Giovanna è una donna sola. “I due figli maschi e la figlia più grande – ci fa sapere Salvo Palazzolo – hanno deciso di restare a Palermo, prendendo le distanze dalla scelta della madre. A Palermo è rimasto anche l’ ex marito della donna, la coppia ha divorziato cinque anni fa”. Una donna, dunque, che spera solo nello Stato, come Rita Atria sperava in Paolo Borsellino. Con questa piccola differenza: che di Borsellino Rita si poteva fidare, oggi con questo Stato non si può fare la stessa cosa.
Questo pentimento è perciò un fatto straordinario perché la protagonista è sempre vissuta al fondo Pipitone ed è stata testimone involontaria di tutti i fatti indicibili voluti dai corleonesi e da suo padre, che oggi pare che comandi dal carcere. La storia dei Galatolo comincia veramente da lontano. Dal padre di Giovanna, Vincenzo, alias “Enzo Alati”, nato a Palermo il 20 settembre 1944. Nipote del “mitico” Gaetano Galatolo, alias “Tanu Alati”, ucciso al mercato ortofrutticolo di Palermo nel 1955. Indicato dal pentito Francesco Marino Mannoia, è accusato di associazione mafiosa e di estorsione continuata nel contesto delle indagini scaturite dalla scoperta, il 1° dicembre 1989, del covo di Nino Madonia di via Mariano d’Amelio, e nel dicembre 1991 della villa nascondiglio di Salvatore Madonia, nonché dal rinvenimento dei libri mastri nei quali venivano elencate 150 ditte che versavano mensilmente le tangenti alla cosca dell’Acquasanta e di Resuttana.
Stando al decano dei giornalisti palermitani, Aurelio Bruno, oggi ultranoventenne, ma con la memoria fresca di un ragazzo,Vincenzo Galatolo e Francesco, Giuseppe, Salvatore e Diego Madonia sarebbero stati i maggiori beneficiari delle somme che le vittime delle estorsioni pagavano. Il clan, all’epoca, avrebbe racimolato in media cento milioni al mese. Vincenzo Galatolo era indicato con il nomignolo di “Buicennu”, cioè “Faccia di bue”. Arrestato insieme ad altre sei persone in seguito alle dichiarazioni dell’italo americano Joe Cuffaro, fu accusato anche di avere ricevuto oltre 600 kg di cocaina dalla Colombia, spedita con il cargo “Big-John” e sbarcato sulla costa di Castellammare del Golfo durante una tempesta tra il 9 e l’11 gennaio 1988. Valore della merce destinata alle famiglie della mafia siciliana: 12 milioni di dollari.
Al processo che ne seguì furono coinvolte tredici persone tra le quali Romero De Aponte, Leon Angelo Sanchez, i Galatolo: John, Giovanni, Raffaele e Giuseppe, Allen Knox, alias “Britto”, capitano della nave, Francesco e Antonio Madonia, nonché altri. Con sentenza del 24 marzo 1993 Vincenzo Galatolo fu condannato a 26 anni e a trecento milioni di multa. John Galatolo rappresentava la mafia italo-americana dell’Arenella, ma risiedeva a Miami Beach in Florida, ed era forse legato al clan dei Fidanzati. Ma per capire i Galatolo e la loro storia bisogna conoscere la linea di continuità che unisce diverse storie di clan mafiosi: da un lato quella dei corleonesi dei quali i Galatolo sono stati fedeli esecutori di ordini; dall’altro quella di famiglie come i La Barbera e i Madonia che hanno fatto il bello e il cattivo tempo di un’altra storia, sempre parallela e incrociata con tutte le altre, come in una grande orditura senza fine. Quella di Cosa Nostra. Storie di boss e delle loro famiglie, ma anche storia sociale e politica che ha impedito ai siciliani di essere come avrebbero avuto il diritto di essere.
Giuseppe Casarrubea