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Giovanni Pascoli. Una vita per la poesia

Creato il 15 marzo 2016 da Postik @postikitalia

di Gianpaolo D’Elia

Suo padre è assassinato quando è ancora bambino. Da quel momento la sua vita non è più la stessa: nel giro di pochi anni muoiono prematuramente prima alcuni fratelli, poi la madre. È costretto presto a fare i conti con le ristrettezze, la fame e il dolore. Il padre era il centro della vita di questa piccola comunità familiare. Sì, proprio una piccola comunità familiare.

Lui, anche dopo tanti anni, non dimenticherà quelle tavolate con 10, poi 11, infine dodici persone che ridono, litigano, piangono. Tutto nella stessa casa. Una casa enorme, un castello. Lo sa che non è suo. Ma in quel castello si sente un principe, un guerriero, un cavaliere. Il padre di quella dimora è il suo re. E poi quanti giochi, quante avventure di bambino. Quante ore spese a rincorrersi, a spingersi e a sperimentare la vita. E’ solo una vita simulata, ma lui non lo sa ancora. Quella per lui è la vita, è l’unica vita. Lo sarà anche più tardi, lo sarà per sempre. Ma lui non lo sa ancora.

Lo strappo arriva drammatico e  improvviso. La tragedia è sempre inaspettata, troppo perché il piccolo Giovanni non resti annichilito. Distrutto. Annientato. Lo sparo, in pieno viso, non pone solo fine alla vita di un padre. Anche un bambino, in quel preciso istante, viene allontanato violentemente, cacciato via. Non è più il tempo dei giochi. Bisogna crescere, in fretta!

Avete mai riflettuto sulla vita di Pascoli? Che romanzo biografico straordinario, degno di una rock star contemporanea! Conosciamo tutti gli eventi drammatici che hanno segnato la vita del poeta: la morte prematura del padre, un lutto, un assassinio – soprattutto –  che ritornerà ossessivamente nelle sue liriche, facendosi simbolo di un mondo ingiusto e minaccioso, capace di distruggere senza motivo quel “nido” familiare che il poeta non smetterà mai di rimpiangere.

E’ questo il Pascoli che ci viene presentato, in modo quasi canonico, impagliato e cristallizzato, dalla tradizione, dal mondo della cultura e – perchè no? –  anche dalla nostra pigrizia.

Ma proviamo ad andare oltre, proviamo a leggere meglio dietro l’immagine tradizionale. Vedremo che c’è altro. Vedremo che oltre “La cavallina storna”, oltre il “X Agosto”- poesie dedicate appunto ad una ossessiva rielaborazione della tragedia vissuta durante l’infanzia – c’è un mondo degno della nostra attenzione.

Giovanni cresce, cova rabbia e rancore, ma non ha il tempo né di esprimerli né di elaborarli. Il tempo stringe, deve ricostruirsi un futuro. Deve ricostruire una casa, per sé e per ciò che rimane della sua famiglia. Si tuffa nei libri ed ottiene, forse primo in graduatoria, una borsa di studio per frequentare l’università di Bologna.

Carducci è uno degli esaminatori e, negli anni successivi, sarà suo docente, maestro e punto di riferimento. Intanto Giovanni si avvicina al socialismo e agli ambienti riformisti. Arrestato durante una manifestazione in favore dell’anarchico Giovanni Passannante, è arrestato e trascorre tre mesi in carcere. Liberato e assolto dall’accusa di sovversione, grazie anche all’intervento del suo maestro, abbandona la politica e ritorna agli studi, ottenendo la laurea con lode soltanto nel 1882. C’é spazio anche per un po’ di sana autoirinia: “Ebbi la laurea – più che per altro, per manco di denaro a pagare le tasse – soltanto nel 1882”. Diventa docente di latino e greco nei licei. Parte. Finalmente può lasciarsi alle spalle il passato e il male.

E’ solo un’illusione. Il male ritornerà sempre a tormentarlo, sotto forma di ricordi ossessivi e atroci malinconie. Ma c’è una cura al male: si avvicina all’alcol. Il vino innanzitutto. Poi, sempre più speso, il cognac. Solo così non pensa. Solo così riesce – nei momenti più brutti –  a non pensare. La sua carriera lo porta lontano: prima Matera, dalla quale fugge dopo solo due anni. Poi Lucca e Massa Carrara. In quest’ultima città, del cui soggiorno conserverà sempre un ricordo dolce, cercherà di ricostruire il “nido” familiare così prematuramente perso.

Lo farà con ciò che rimane della sua famiglia, con le due sorelle Ida e Maria. Tuttavia è, finalmente, famiglia. La sua famiglia. Nel frattempo non smette di scrivere. Alcune liriche, lo abbiamo accennato, riverberano le sue ossessioni mai allontanate. Altre – però – ci regalano un Pascoli meno noto: “Il gelsomino notturno” è una delicata preghiera, nel contempo, ad un fiore e al mondo femminile. Entrambi visti con gli occhi del bambino. Sì,  perchè quel bambino così rapidamente allontanato, scacciato e umiliato, non poteva essere tenuto lontano per sempre: è finalmente tornato, pretende i suoi spazi.

Da questo momento sarà così per sempre. L’uomo e il bambino si incontrano di nuovo. Non si lasceranno mai più. Tante cose sono state dette – forse troppe, annegate spesso nel pettegolezzo – sulla vita intima del poeta. Per lui è stato addirittura coniato il termine di “sessualità mancata”, per indicare la sua incapacità di affrancarsi da un dolore forse troppo grande e di ricostruirsi, finalmente, una nuova vita. Ma forse nessuno si è chiesto se Giovanni davvero lo volesse. La convivenza con il sé bambino ha i suoi costi. Cerca una via d’uscita: si innamora della cantante Lia Bianchi; ma si oppongono a questo progetto proprio le sorelle, il suo “nido”. Lui si ribella, si dibatte e protesta. Ma poi cede: non vuole perdere la sua famiglia; non un’altra volta. Trova il suo rifugio ideale: Castelvecchio di Barga, nella Garfagnana.

Qui ritrova la sua dimensione ideale, nella quiete della campagna e lontano dalla città. Nel frattempo viene nominato professore di letteratura latina all’università di Messina e – alla morte di Carducci, nel 1905 – ne prende il posto nella prestigiosa cattedra di letteratura italiana all’Università di Bologna. E’ il coronamento della sua carriera accademica.

A Bologna potrà vivere finalmente con maggiore serenità rispetto al passato. Ma non dimenticherà la sua dimensione più autentica, quella bucolica della sua piccola casa di Castelfranco di Barga: “Nascondi le cose lontane … Ch’io veda il cipresso là, solo/ qui, solo,quest’orto, cui presso/ sonnecchia il mio cane”. Gli ultimi versi della poesia Nebbia ci restituiscono un Pascoli stanco, desideroso finalmente di pace: che finalmente giunga la nebbia, impalpabile e bianca, a coprire il male del passato e il resto del mondo; che resti solo il suo mondo, piccolo, conosciuto, soprattutto sicuro.

Tra i suoi versi, l’insegnamento, la cura delle sue poche vigne, la visita di pochi fidati amici – occasione per mangiate e bevute pantagrueliche, dalle quali si ritira ebbro di gioia e di vino – trascorrono gli ultimi anni della sua vita. Morirà ncora giovane, appena cinquasettenne, nel 1912. Un cancro al fegato, riporta il certificato di morte. Forse, più realisticamente, si tratta di cirrosi epatica. “E’ l’alba: si chiudono i petali / un poco gualciti; si cova, / dentro l’urna molle e segreta, / non so che felicità nuova.” Eh sì: che grande star del rock sarebbe stato Pascoli! Se solo fosse nato un secolo dopo … .

Gianpaolo D’Elia

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fonte foto: Giovanni Pascoli Barganews.com

Gianpaolo D’Elia


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