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Giovedì sera da Giuseppino sotto il temporale

Da Fabry2010

Giovedì sera da Giuseppino sotto il temporale

Erano in tre, seduti a un tavolino rettangolare da quattro – due su di un lato e il terzo sull’altro –, indossavano pantaloni di cotone scuro e camicie a maniche corte bianche. Tenevano le giacche sulla spalliera delle panche. L’una ammassata sull’altra.
“Dobbiamo liberarcene” stava dicendo il meno grasso. Erano tutti e tre obesi.
Avevano dita obese, colli obesi, polsi obesi, e sui polsi obesi portavano orologi in metallo dorato – o forse d’oro vero e proprio – che di tanto in tanto si rigiravano con nervosismo tra le dita.
“Non ce n’era bisogno se qualcuno non faceva la cazzata.”
Il più grosso dei tre, che se ne stava affondato sulla panca dirimpetto agli altri due, lanciò un’occhiata di rimprovero al tipo che aveva appena parlato. “Adesso la finisci” continuò il primo.
“Neppure ho cominciato.”
“Chiudete quelle fogne voi due. Ne ho davvero le palle piena di questa storia.”
Parlava a voce bassa. Parlavano tutti e tre a voce bassa. Col mento incassato nel collo e la fronte a quarantacinque gradi sul tavolo, e lo sguardo che girava attorno con indifferenza, ad accertarsi che nessuno li stesse ascoltando.
“È tutto a posto. Abbiamo ancora tempo. Nessuno si è ancora accorto di nulla. Non della ragazza almeno.”
“Sembra facile” intervenne il tizio seduto di fianco a quello che aveva parlato per primo. “Qui basta che uno fa la cazzata e ce l’abbiamo nel culo tutti.”
“Appunto. Facciamo le cose insieme e non ci saranno problemi.”
Il ristorante era affollato. I tre sedevano a un tavolo d’angolo lontano dal resto della sala. Il tavolo era davanti al vetro che dava sulla strada, fuori era buio, pioveva. Sul marciapiede passavano coppie intirizzite, accucciate sotto ombrelli piegati dal vento. L’acqua cadeva dalla tenda del ristorante in diagonale, la scritta sopra la tenda diceva “Trattoria Giuseppino.”
“Allora, ripercorriamo l’intera cosa” disse l’obeso più grasso. “Nessuno l’ha vista, giusto?”
“No, non credo.”
“Non credo o sei sicuro?”
“Sono sicuro. Ma non si sa mai.”
“Capisci?” Intervenne l’altro. “Come si fa così?”
Arrivarono gli spaghetti allo scoglio. Il cameriere posò il vassoio a centro tavola e se ne andò, e allontanandosi disse buon appetito. Loro studiarono il cibo per un istante che parve non finire mai, come se il tempo si stesse dilatando nelle loro teste e fosse sul punto di spaccarsi e cadere in pezzi sulla tovaglia. Poi cominciarono a servirsi.
Fecero porzioni abbondanti. Ripulirono il vassoio e riempirono all’inverosimile i propri piatti. E concedendosi una pausa dalla loro discussione si misero a mangiare.

Quasi dodici ore prima la ragazza non avrebbe dovuto trovarsi dove si trovava, questo era il punto.
Se non fosse stata là, non avrebbe visto quello che aveva visto. Non avesse visto quello che aveva visto, non sarebbe successo quello che era successo.
Il più obeso dei tre aveva ripetuto questo ritornello fino alla nausea. La colpa non era loro. La colpa era della puttana.
“Non chiamarla puttana” aveva detto il meno grasso, mentre ancora si districava nel corridoio sul retro della discoteca, “non è una puttana ok?”
“E tu cosa ne sai?”
Il tipo si era fermato, era sudato, teneva tra le mani una delle caviglie della donna e intanto parlava. “Non è una puttana ok?” Aveva ripetuto.
“Era. Non c’è più adesso” aveva mormorato il terzo, continuando a spostarsi lateralmente con l’altra caviglia stretta nelle dita.
“Ok. Non era una puttana. Tutti d’accordo. Qualcuno almeno sa il suo nome?”
La stavano trascinando verso l’uscita.
“È arrivata ieri con le nuove. E comunque puttana o meno è morta.”
“Quello che è successo è successo” aveva proseguito il più obeso, muovendosi a fatica e ansimando, come se fosse anche lui sul punto di cadere morto sul pavimento. “E la colpa non è nostra. Dobbiamo toglierci dalle palle, punto e basta.” Camminava all’indietro tenendola stretta sotto le ascelle. “Non ce la fate a sollevare le gambe più in alto? Cristo di un cane, sta sbattendo col culo dappertutto.”
“Siamo degli assassini” aveva detto il più magro.
“Non siamo degli assassini. Toglitelo dalla testa. Non ci pensare nemmeno. Concentrati su quello che stai facendo per dio. È stato un incidente.”
Eccoli, tre buttafuori obesi a trascinare il cadavere di una ragazza fuori da una discoteca.

Il piano era alleggerire le casse del capo. Ed era un piano facile.
Il capo era il proprietario della discoteca in cui lavoravano, ma possedeva anche un’infinità di altre cose di cui solo lui era a conoscenza. Molte delle sue entrate erano costituite da contanti che dovevano essere spesi in fretta, altre da contanti che si accumulavano nella cassaforte dell’ufficio e che poi sparivano a settimane di distanza, altre ancora da contanti di cui nessuno sapeva niente. Il capo non c’era mai. Aveva una nuova fidanzata. Stava girando il mediterraneo sul suo nuovo yacht.
Ogni giovedì mattina arrivava in discoteca una borsa da viaggio in tessuto morbido piena di questi contanti. Succedeva che qualcuno proveniente da chissà dove entrava dalla porta sul retro, e lasciava questa borsa sotto la scrivania dell’ufficio. Soldi da far sparire. Soldi da utilizzare per stipendi e spese varie. Da far volatilizzare, distribuire, frazionare. Non importava come.
Soldi che negli ultimi tempi erano divenuti sempre più spesso materia di litigio tra i due gestori della discoteca.
I gestori non si vedevano di buon occhio. Questo era il cuore del piano. Il capo programmava già da tempo di liberarsi di entrambi. Lo sapevano loro, lo sapevano i camerieri, lo sapevano i buttafuori, le bariste, le ballerine. Lo sapevano quelli delle pulizie. Questione di settimane e sarebbero stati cacciati a pedate.
Ma intanto i contanti continuavano ad arrivare.
Sottrarre la borsa, tutto qua. Poi i buttafuori si sarebbero parati le spalle a vicenda, i gestori si sarebbero scannati l’un l’altro, il capo avrebbe perso le staffe. Qualcuno ci avrebbe rimesso la testa.
“Facile come una pisciata da seduti” aveva detto il più obeso.
La borsa. La borsa veniva lasciata nell’ufficio sul retro, alle sei di ogni giovedì mattina, e nessuno si recava nella discoteca fino all’ora di pranzo. Sapevano – loro come altri – dove stava nascosta una copia della chiave, e conoscevano il codice dell’allarme – l’avevano visto digitare da uno dei gestori al termine di una notte di bevute e cocaina – ma sapevano anche che chiunque con un minimo d’iniziativa avrebbe potuto essere a conoscenza delle medesime informazioni.
Il primo problema l’avevano incontrato al momento di trovare la chiave.
Il nascondiglio era diverso da quello che si ricordavano.
Trovata la chiave, erano entrati in due mentre il terzo – il più magro – era rimasto in macchina a controllare la strada. Ma si era distratto.
Gli era bastato abbassarsi per pochi secondi, giusto il tempo di piegarsi a cercare l’accendino sotto il sedile, per non vederla comparire sull’altro lato del marciapiede.
La ragazza era nuova. Era straniera. Non sapeva che nessuno doveva recarsi in discoteca prima dell’ora di pranzo.
Quando il tizio si era sollevato di nuovo, aveva appena fatto in tempo a scorgere le sue gambe mentre entravano dalla porta socchiusa. Era uscito dalla macchina e aveva attraversato il cortile, e guardandosi attorno era a sua volta entrato. Giusto nel momento in cui gli altri due se l’erano ritrovata davanti e le erano saltati addosso.
Si era gettato a sua volta sul gruppo. C’era stata una collutazione. Erano volate grida. Qualcuno aveva usato troppo le mani.
La ragazza era rimasta a terra.

Finiti gli spaghetti arrivarono i secondi. Arrivarono tre porzioni di crostacei e calamari fritti, arrivarono le patate al forno, le verdure grigliate, e altre due bottiglie d’acqua naturale.
Il più obeso dei tre mangiava tenendosi il tovagliolo aderente al collo con una mano, bene attento a non sporcarsi la camincia bianca, mentre i due dirimpetto a lui avevano lasciato i loro tovaglioli di fianco ai piatti e di tanto in tanto li prendevano per ripulirsi dita e labbra dall’unto della frittura. Continuavano a parlare a mezza voce.
“Magari la ragazza stava già male e non lo sapeva” diceva il primo.
“La ragazza stava bene. Con un corpo del genere vuol dire che stai bene” diceva il secondo.
A mezza voce, e con la bocca piena, parlavano.
“Si deve essere rotta il collo quando ci siamo caduti sopra” riprendeva il primo.
“Dovevamo rubare dei soldi, non uccidere una persona” continuava il secondo. “Ce l’avremo per sempre sulla coscienza.”
Il più obeso ascoltava. Finì di mangiare, si passò il tovagliolo sulla bocca e controllò l’orologio. “Adesso vi spiego come stanno davvero le cose” disse a quel punto. “A tutti e due.”
Si servì un bicchiere d’acqua e disse “ogni giorno nel mondo la gente nasce e la gente muore. Non sta a me né a voi giudicare quali sono le ragioni. È così e basta, da sempre. Ognuno di noi senza neanche saperlo può essere la causa della morte di qualcun altro. Chissà quanti colli abbiamo già spezzato e neanche lo sappiamo capite? Non volevamo far del male alla ragazza, questo è il punto. Questa è l’unica grande verità. Però è successo. Le cose accadono. Sono accadute a lei, accadono a noi, accadono a quella coppia seduta nel tavolo là davanti. Dipende da dove ti trovi al momento in cui questo qualcosa accade. Non ha niente a che vedere con chi ci si trova coinvolto. La ragazza non doveva trovarsi là. Si è fatta male. È morta. Fine della storia. Dobbiamo seppellirla da qualche parte e sperare che riposa in pace. Questo è quanto.”
I due dirimpetto a lui non dissero niente.
Con un gesto della mano, l’obeso che aveva appena parlato ordinò tre caffé.
“In un certo senso tutto questo può essere una cosa positiva. La ragazza era arrivata da poco no? Adesso è scomparsa. Insieme a lei è scomparsa una borsa piena di soldi. Uno più uno fa due giusto? Il resto non sono fatti nostri. Noi” disse, “ci atteniamo ai piani. Semmai resta il mistero di capire come ha fatto a entrare nella discoteca per rubarla. Ma anche questo non ci riguarda. Che se la vedano i due cretini e il capo.”

Pochi minuti dopo si alzarono scivolando come polpi lungo i bordi del tavolo, e andarono a pagare. E pagando scambiarono due chiacchiere col proprietario della trattoria. Potevi dirlo da come discutevano che si conoscevano.
Io mi alzai un momento dopo averli visti uscire. Lasciai la mia compagna con il suo caffé ancora tra le mani e andai a saldare il nostro conto.
“I tre seduti al tavolo d’angolo” dissi una volta di fronte al tizio alla cassa. “Quelli che se ne sono appena andati.”
“Sì.” Disse lui.
“Sono facce familiari, mi domandavo se lavorano in qualche discoteca della zona. Sono sicuro di averli già visti da qualche parte…”
“Sono autisti d’autobus” mi rispose quello. “Il capolinea è qua dietro, fanno la notte. Vengono sempre a cenare qui prima di cominciare il turno.”
Pagai. Ringraziai. Feci i complimenti allo chef.
“Tutto ottimo” dissi allontanandomi.
E una volta al tavolo, mi sedetti nuovamente di fronte alla mia compagna e le sussurrai “autisti d’autobus.”
Lei mi guardò.
Durante la cena, un’infinità di minuti prima, mi aveva scoperto a fissare qualcosa alle sue spalle. “Bé?” aveva chiesto.
“Sto scrivendo una storia” avevo risposto.
Si era girata e aveva incontrato con lo sguardo i tre tizi obesi seduti al tavolo d’angolo. “Quindi?” aveva chiesto voltandosi di nuovo verso di me.
“Quindi non so. Non ne sono sicuro.”
Mi aveva osservato a lungo. Aveva gli occhi esageratamente luccicanti e vivi. Amavamo farlo. Uscire a cena fuori, nelle notti di pioggia, a vedere il mondo che si ostinava a non voler smettere di girare.
“Tu cosa dici?” avevo chiesto. Aveva questa sua dolcezza, questa bellezza tutta candore e sensualità a scivolarle sulle pupille ogni volta che condividevamo il pensiero di una storia.
“Dico che sembrano tre che hanno appena fatto qualcosa di losco.”



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