Non è proprio sindrome di Stoccolma, o forse di Rigoletto, ma succede che qualcuno, colpito o deriso dallo scherno o dalle crudeltà dei potenti si metta al loro servizio sperando di conquistarseli, di essere assimilato, di godere del cono di luce della loro benevolenza.
Veltroni, chi più sfigato di lui, a 28 anni nemmeno diplomato? più licenziato di Ichino, vuole acquistarsi la benigna attenzione del governo chissà mai che non risparmi i più devoti, e si presta sfrontatamente e spericolatamente a dare una mano a buscar l’oriente attraverso l’occidente, a giungere alla virtù attraverso il vizio, a realizzare la “rivoluzione democratica” mediante il riformismo di Monti.
Il premuroso giornalista che raccoglie queste perle le definisce “ sassi lanciati nello stagno della politica commissariata dal governo dei tecnici, destinate a far discutere anzitutto un Pd ancora imbambolato dalla batosta delle primarie genovesi”.
Chiunque dotato di buonsenso e onestà le definirebbe oltraggi e derisioni, della rivoluzione e del riformismo. E anche un affronto al senso del ridicolo: Monti ha dimostrato non solo di voler risanare i conti, ma di voler cambiare molto del paese e vi sta riuscendo, con il consenso dei cittadini e dell’opinione pubblica internazionale. La copertina di Time o l’ovazione al Parlamento europeo sono un tributo ad un paese che solo qualche mese fa era guidato da Berlusconi e deriso”
“Questo governo tecnico ha fatto in tre mesi più di quanto governi politici abbiano fatto in anni”, dice, così per dare un aiuto dà anche lui una bella picconata ai diritti, al santuario dei no, all’arcaico articolo 18, ché in fondo lui non sarà Robert Kennedy, anche per via dell’ignoranza dell’inglese, ma noi in fondo non siamo neri e di contentini ne abbiamo avuti fin troppi.
Entusiasta della ragioneria e della contabilità: “ci vogliono più diritti per chi non ne ha nessuno”, dice,come se i diritti potessero essere ridotti a segmenti, gerarchie, fettine di qualche torta dell’ingiustizia, elargizioni concesse dall’alto e non fossero conquiste che nessuno può permettersi di togliere e tutti devono combattere per conservarsi. Come se i diritti non fossero la materia perfetta sulla quale aggiungere per conseguire la rivoluzione democratica e non levare per consolidare l’iniquo sistema sopraffattore del profitto.
Non mi stupisce, tutto quel cinema con una predilezione per coscialunga e Alvaro Vitali, deve averlo condotto a preferire la narrazione alla realtà, gli spettatori ai cittadini, il biglietto d’ingresso al voto e il dibattito nel cineforum dopo la Corazzata alla critica. E deve piacergli stare dietro lo schermo del privilegio, nel mondo separato di una politica ormai circolante negli spazi siderali dell’irrealtà e nell’immateriale crudeltà algida del liberismo.
Eppure se siamo qui, se siamo in questo precipizio lo dobbiamo anche a lui, ai custodi di quella democrazia a porte chiuse diventata plutocrazia, alla fissazione di codici incompatibili, alla liquefazione di legami e della solidarietà, a processi insondabili fatti di equlibrismi e egoismi, di personalismi e arbitrarietà, nei quali i diversi sono altri e “invasori” per un sindaco di sinistra come per uno leghista.
Ma non mi stupisce il ciarpame raccogliticcio di modernità e cinismo, di pragmatismo e miopia di Veltroni. Il primo vero rottamatore della sinistra, protervo e determinato perché non ci si riconosceva, non la sentiva, non ne voleva testimoniare, come un attrezzo arcaico da mettere in soffitta insieme alle ideologie e alla idee, ai valori e ai principi, sempre quelli, quelle poche parole, cui se avessimo guardato come a una stella polare, non avremmo perso il cammino.
Ma aveva fretta di fare piazza pulita con un lavoro sporco di fusione a freddo di componenti inconciliabili, con un’accelerazione di un processo costituente mirato a liquidare frettolosamente e implacabilmente la “sinistra”. E insieme a quel patrimonio di idee, memorie, storia, una classe dirigente, un governo in carica, compagni di strada, con una fuga sgangherata e ingrata, come se toccarli, mantenere i contatti potesse contagiare con l’aborrito virus dell’impopolarità.
A me non piacque quel partito e non mi piaceva l’elettorato che voleva conquistare, con la rinuncia liquida all’identità : leghisti del Nordest, berlusconiani capricciosi, maggioranze silenziose conquistate dal bravo ragazzo. La scelta del Lingotto per l’autofondazione ebbe il carattere dello sfregio: trasformare un monumento del lavoro, delle sue conquiste, del passaggio di uomini e delle loro storie di fatica e diritti conquistati, in un posto da convention, in un “incubatore” di slogan senza idee, in un teatro della slealtà di classe.
Più che Totem e Tabù gli consiglierei L’interpretazione dei sogni, un libro che avrebbe dovuto forse leggere prima per capire che i solo i sognatori sanno immaginare un mondo migliore e cercare di costruirlo, non i ragionieri .