Nella terra di nessuno. O nella terra di mezzo. Si dice così quando un ciclista si stacca dalla fuga e resta a pedalare lì, lungo tutti i secondi di vantaggio, tra i fuggitivi e il gruppo. Questa, per i ragazzi Androni, è stata la settimana di mezzo, in bilico tra il traguardo e il resto. Il resto ha avuto la meglio. I tempi, le forature, le sfortune. Tante, troppe per chi è in fuga tutti i giorni senza risparmiarsi mai. Troppe per chi crede davvero che questo sia uno sport dove alla lunga i sacrifici pagano, assieme alla tenacia e al cuore.
A Forlì, la gente gira per i pullman parcheggiati in una via principale del centro. C’è profumo di brioches calde di marmellata del mattino che si mischia all’afa senza sole. Su quello dell’Androni Sidermec, di pullman, fa ancora più caldo. Appo è già pronto ed è seduto su uno dei sedili con il cellulare in mano, Frappo di sta mettendo i calzini.
Sul tavolino sono sparsi gli occhiali, i guantini, qualche foglio, forse l’altimetria di oggi. Cose quotidiane. Come il caffè che si stanno preparando gli altri in questa mattina che forse non è proprio come se l’aspettavano.
In fondo, nel piccolissimo salottino, c’è Flag che fruga in un borsone. E poi Oscar. Sorride, non dice niente del giorno prima. E’ giusto così. Con il Giro, ogni giorno è un nuovo giorno. Ha in mano il Garibaldi aperto sull’altimetria di oggi, ci scorre il dito. “Oggi la vedo duretta, eh” dice. Gli guardo la gamba: una cartina geografica. La pelle che si sta lentamente riformando e quella ancora lucida per la grattata sull’asfalto.
Ma quello che fa più male non si vede, nemmeno scorrendo i fotogrammi del giorno prima, di quando dopo una fuga dal chilometro zero la sua ruota si buca nel momento in cui non sarebbe mai dovuto succedere. Dodici chilometri all’arrivo: la volta buona per un velocista in un gruppetto dove forse nessuno avrebbe potuto impedirgli di volare prima di tutti. Invece la gomma lo tradisce e questa è una di quelle sfortune che sei costretto ad accettare con la rabbia silenziosa mentre il gruppo ti recupera. Una ruota nuova non è abbastanza: c’è lui che pedala lentamente e le sagome colorate all’orizzonte.
Il giorno dopo, mentre sono in macchina verso Forlì, mi scrive Paolo, uno dei suoi allenatori: tra le tabelle, i grafici, i watt, c’è l’affetto sincero che li lega ai loro corridori. Mi dice che sono una grande squadra e che quando ha visto Oscar forare gli si è stretto il cuore. E che dietro i titoli dei trafiletti “Sfortunato Oscar” c’è il mondo di gente che lavora per una vittoria così. Al Giro. Il palcoscenico più importante di tutta la stagione.
Sì, c’è altro. Bastano anche poche parole che arrivano da dentro come un fiume in piena. Rabbia e passione. Anche questo è il ciclismo ed è così inutile provare ad etichettarlo. Cavalli selvaggi racchiusi in trafiletti di poche righe di tecnicismo. Quella è la bici, d’accordo. Ma questo è Oscar, caduto in volata a sessanta all’ora, rimangiato dal gruppo assieme alla sua occasione, e ora pronto di nuovo. Come ogni mattina. Riunione, foglio firma, partenza. E ancora chilometri, ancora la strada che compone i sogni come un ragno all’alba fa con la sua tela e poi li distrugge improvvisamente. La pazienza del ragno è tutta qui: tessere di nuovo, ogni notte. Ogni volta.
Questa, di volta, tocca al Pelli. Verso Imola piove, di tanto in tanto smette, nel cielo si apre un po’ di azzurro e poi se ne va, ricomincia di nuovo. Tempo capriccioso come questi ultimi giri finali sul circuito. I minuti sono abbastanza, non li recupereranno. Ma in fuga con loro c’è Ilnur Zakarin: ragazzino magrissimo tutto piegato sulla sua bicicletta sotto la pioggia che sguscia via e resta da solo fino al traguardo. Per Pelli e gli altri è un inseguimento sotto il diluvio su quella pista dove il bianco e il rosso a bordo strada sono più vividi che mai. Esce il sole all’arrivo e il Capitano è terzo.
Ai pullman, tra le pozzanghere che luccicano di quella strana luce del pomeriggio, dirà sorridente che le gambe ci sono e le occasioni pure. Una di queste proprio il giorno dopo. Quella di Vicenza. Terra sua, il Veneto. Anche se lui è nato a Bibione, al confine col Friuli. Il Pelli è il Pelli e c’è scritto a caratteri cubitali anche sulle salite. C’è la pioggia e c’è subito Appo in fuga, quella che verrà ripresa quando di chilometri al traguardo ne mancheranno sessanta. Poco dopo, in salita, parte Zilio. Sotto quella pioggia incessante e la strada che sale, il telecronista racconta quanta poesia c’è nel suo nome. Gianfranco non è neanche parente di Zilioli Italo ma questo non importa perché il suo modo di salire leggero, di alzarsi di tanto in tanto sui pedali sembra raccontare il suo rapporto con la montagna, molto più che le parole. Lui che in partenza è spesso silenzioso e riflessivo, ha lo stesso pregio di molti scalatori: parla quando la strada sale.
I suoi secondi di vantaggio oscillano tra i quattordici e i quindici. Più quindici, per molti chilometri. Quasi un distacco matematico: poco sì, ma sempre uguale. A lungo. Però manca ancora tanto al traguardo e questa tappa la vogliono in troppi. Il gruppo se lo rimangia come farà con tutti gli altri tentativi. A parte l’ultimo, quello di Pelli. Tredici chilometri e uno scatto. Prima un po’ titubante e poi sempre più convinto. Secondi fissi, ipoteca da sogno sulla vittoria cercata fin dal primo momento. Piove e si sale, piove ancora ma il Capitano non deve mollare. C’è la gente che gronda acqua dai k-way e continua ad urlare ai lati della strada. C’è Vicenza che aspetta. Quei secondi si possono tenere. Eppure, agli ultimissimi chilometri, sguscia fuori inspiegabilmente Tanel Kangert, il gruppo lo vede, aumenta il ritmo, lo segue. I secondi scivolano via assieme all’asfalto. Kangert lo raggiunge, il gruppo è un fiato caldo nel freddo di quel giorno. Il gruppo è un grande squalo che se lo mangia in un attimo. Scatta Gilbert perché quello gli sembra il suo Cauberg e li frega tutti. Di nuovo il massaggiatore che passa un asciugamano da arrotolare attorno al collo, l’acqua che gocciola dalla faccia senza troppi sorrisi.
Troppa pioggia e troppe cose che dovrebbero andare in un altro modo. Anche a Jesolo dove il mare ha il volto livido delle giornate peggiori e Appo segue il treno della Lampre fino all’ultima curva. E’ lì per un istante. Poi le volate son così, ti perdi e ritrovi nel giro di mezzo secondo. Questa era pura, tutta per i velocisti. L’ultima prima di Milano. Quella che tutti vorrebbero.
La pioggia lava tutto ma non riesce a purificare il tossico di questi giorni, la rabbia per tutto quello che è stato fatto e non è mai tornato indietro.
La mattina di Treviso è silenziosa. Il rumore della pioggia incessante sui tendoni dei pullman e il brusio della gente si confondono. Flag è il primo a salire sui rulli. “Marcolino” lo chiama una signora. “Fai un sorriso che ti faccio la foto”
Lui alza la testa, sorride. Le cuffie penzolano dalla bici e il casco lucido da crono è appoggiato a terra. Altri lo chiamano, lui risponde, parla con qualcuno. E’ la sua gente, questa. Il Veneto è anche casa sua. E di Oscar che appena si mette a far rulli, i ragazzini allungano la mano con i taccuini per gli autografi. Lui firma, ride.
Sarà una giornata lunga e faticosa, i chilometri di questa cronometro sono tanti, e nessuno di loro ha profonda vocazione da cronoman, a parte Serghei che a Valdobbiadene arriva intorno alla cinquantesima posizione: un piazzamento che sicuramente trascina le conseguenze di una caduta in discesa sul percorso. Né il sole né la pioggia portano fortuna. La tappa Madonna di Campiglio è una specie di pietra che segna il chilometraggio. O meglio, dice che ora si aprono i giochi sulle montagne. Giochi per chi ha le gambe. E non è facile mantenerle dopo due settimane senza respiro. Però a Marostica c’è il sole, un sole di giugno che fa venir voglia di mettersi i pantaloncini corti. Zilio e Serghei sono incolonnati alla partenza e si guardano intorno senza parlarsi. Qualcuno insiste sulle tensioni da non disturbare. Io sono sempre più convinta che il silenzio le aumenta e che due chiacchiere leggere per sciogliere la tensione e allontanare il pensiero di giorni spacca gambe servano un po’ come una piccola provvista di zuccheri.
Mezzogiorno passato e il cielo è sempre più azzurro, il sole sempre più caldo. L’ultimo degli Androni Sidermec ad accodarsi è Simone. Non c’è Oscar. Non è partito. Postumi della caduta. Già, la grattata sull’asfalto. Si resiste fin che si può.
Adesso c’è il giorno di riposo. C’è il cielo azzurro di Pinzolo e l’odore di resina umida che viene dai pini delle montagne. Niente bilanci, quelli si fanno alla fine. E questa non è la fine. Terra di nessuno, aria frizzante dell’alba che si aggrappa alle finestre, cime lontane striate di neve. Terra di mezzo. Questa non è la fine. C’è ancora la strada di una settimana intera. In equilibrio tra la linea bianca e il gruppo. Il ciclismo insegna che in questi casi c’è solo una cosa da fare: continuare a pedalare. Testa e cuore han già fatto tutto. La fortuna farà il resto perché, prima o poi, il buon vento arriva per chi lo cerca con coraggio. Fino all’ultimo.