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Giù col morale…

Creato il 10 maggio 2010 da Massmedili

Locandina A Serious ManLocandina Il nastro bianco

Doppia recensione per due film apparentemente diversissimi ma in realtà con molti punti in comune nel weekend che ha visto il quasi crollo dell’euro: A serious man dei fratelli Coen e Il nastro bianco di Michael Haneke.

Il primo è una commedia della premiata dittta Joel ed Ethan Coen, questa vota impegnati a ricamare un arazzo di identità ebraica nell’America degli anni Sessanta, in un Midwest simile a quello di Fargo, solo in versione estiva. Al protagonista, posato quarantenne piccolo borghese, ne capitano di tutti i colori fra la moglie che gli annuncia il divorzio con un piglio da burocrazia kafkiana, i figli che lo ignorano e (probabilmente) disprezzano, l’attrazione per la provocante vicina che non trova sbocchi, l’adorato fratello sociopatico che vive alle sue spalle ma si rivela un giocatore d’azzardo incallito e probabilmente anche un pedofilo. Il tentativo di reazione è quello di rivolgersi alla religione dei padrii, personificata da tre rabbini di età diverse (quello giovane è identico a Sacha Baron Cohen, alias Borat, Ali G e Bruno), che però non hanno risposte se non quella che cercare in Dio le risposte per le assurdità del mondo è semplicemente inutile, con un crescendo di introspezione che rivela quanto avevamo sempre sospetatto: la psicanalisi è un’arte che deriva direttamente dalla dialettica rabbinica dell’Europa Orientale, dalla Kabbalah. Gustosi e consistenti i riferimenti lettererari, dal prologo ambientato in un’Europa dell’Est leggendaria che sembra uscito dalle pagine di Isaac Bashevis Singer e recitato in Yddish, alla storia principale che ricorda molto Philip Roth con alcune notazioni di incongruenza umoristica alla Joseph Heller (l’indimenticabile autore di Comma 22), soprattutto nelle descrizioni del figlio adolescente che in attesa della Bar Mitzvah fuma spinelli e ascolta i Jefferson Airplane ma anche nelle storie rabbiniche come quella del dentista che scopre incisi brani dellaTorah nei denti dei pazienti non ebrei. Ma il senso generale del film (Si stava peggio quando si stava meglio. Le cose vanno male ma possono sempre andare peggio. Non cercare in Dio consolazione o spiegazione) rimane molto depressivo. Forse un po’troppo. Non che ci voglia a tutti i costi l’ happy ending, per carità. Ma qui la voglia di strapazzare e schiacciare il povero protagonista, di continuare a sottolineare la sua incapacità di conformarsi al sogno americano proprio nel periodo storico del suo massimo splendore finisce per ammazzare  il senso di ironia generale lasciando non solo l’amaro in bocca ma anche un certo senso di pesantezza allo stomaco. Insomma, come si può ridere se la tesi di fondo è che non c’è niente da ridere? La mano dei due fratelli avrebbe dovuto essere un po’più leggera.

Molto più risolto ed efficace il film di Haneke, che alla descrizione del sogno americano oppone una rigorosa e disturbante ricostruzione della genesi dell‘incubo europeo partendo sempre dalle conseguenze della religione sui rapporti sociali. Religione che qui non è l’ebraismo ma il luteranesimo. La ricostruzione non è degli anni 60 ma degli anni 10, alla vigilia della Prima guerra mondiale, resi in un abbacinante bianco e nero che accentua i punti di contatto con i migliori film di Ingmar Bergman. In comune con il film dei Coen un acuto senso di disforia (il contrario dell’euforia), ma almeno qui senza pretese di travestire il tutto da commedia. L’analisi è spietata, la descrizione dei personaggi principali del piccolo villaggio del Nord Reno Westfalia (guarda caso proprio la regione dove nel weekend è stata schiacciata elettoralmente la cancelliera Angela Merkel) il medico, il barone, il pastore luterano che fanno pesare il loro potere, i loro pregiudizi e il loro disprezzo sulle donne e sopprattutto sui bambini è lucida e agghiacciante. La reazione dei bambini umiliati, schiacciati, bistrattati è chiara: in nuce nazismo come reazione violenta alla violenza subita. Anche qui si respira un’aria da grande letteratura, con pennellate alla Thomas Mann. Si può dissentire dalla tesi, non essere divertiti dal film (che almeno non ha la pretesa di farlo), ma non si può ignorare la straordinaria bellezza della ricostruzione, la potenza lirica dell’affresco e la complessiva impressione di trovarsi di fronte a una pellicola epocale (non a caso premiata a Cannes) che ricorda a tratti, per l’ambientazione d’epoca e la fotografia, anche altri capolavori come Jules & Jim di Truffaut e soprattutto Messaggero d’amore di Losey.

Ma pur nella gioia di aver assistito a un probabile capolavoro, finito il weekend, un dubbio resta. Fra crisi economica, minacce di rovina incombente, crollo dei valori della sociatà occidentale, marea nera della Florida e ceneri del vulcano d’Islanda non è meglio farsi anche qualche sana risata liberatoria? La voglia di mettere su il Dvd di Totò, Peppino e la malafemmina si fa sempre più forte…


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