Mistretta è un eccellente scrittore di noir. Con Cairo Editore ha pubblicato Il canto dell'upupa (2008) e Il diadema di pietra (2009), romanzi tradotti e seguitissimi in Germania, Austria e Svizzera. Con Giudici di frontiera ritorna al suo originario mestiere di giornalista, con l'intento di dar voce a quei magistrati che operano in territori presidiati dalla mafia e finiti nel mirino di chi li vede come un disturbante intralcio alle proprie attività criminose e perciò come nemici da abbattere.
Permanendo nella metafora dell'abbattimento, la caratteristica più saliente di questa lettura è la sistematica demolizione di una serie di luoghi comuni sulle mafie. Ci siamo nutriti di romanzi sui padrini, di istant book, di inchieste e di filmoni hollywoodiani sulla mafia, ma come rievoca nella sua arguta introduzione Giancarlo De Cataldo – che non è proprio l'ultimo garzone di bottega in materia -, è trascorso più di mezzo secolo da quando un alto magistrato tesseva il pubblico elogio di Don Calò Vizzini, esponente di una mafia “d'altri tempi”, rispettosa dei poteri costituiti, che si voleva contrapposta all'isterismo e alla violenza dei giovani boss rampanti. Non c'è differenza tra le organizzazioni di oggi e di ieri; sempre mafia è: tentacolare, onnipresente, non solo nell'isola, niente affatto alle corde ma vigile, capace di ramificarsi nelle pieghe della politica clientelare e corrotta, di progettare attentati, di lanciare “avvertimenti”, di condizionare in modo rilevante la nostra vita quotidiana e l'essenza stessa della nostra democrazia.
«Per comprendere il pianeta mafia e combatterlo sullo stesso territorio dove alligna e prospera», scrive Mistretta, nato a Mussomeli (CL), «bisogna prima conoscerlo, studiarlo, trovare i punti deboli e colpire a fondo, come fanno da anni i magistrati, questi professionisti che hanno votato la loro esistenza a tale missione (...)». Non ci si sofferma mai abbastanza sulla questione, invero. Cosa spinge i protagonisti di queste pagine, che ascoltiamo quasi in presa diretta nelle approfondite interviste curate dall'autore, a votare la propria esistenza ad una causa pericolosa per la propria incolumità, pesantemente condizionante per le loro famiglie, in condizioni operative e logistiche spesso disagevoli e per una retribuzione che non è e forse non sarà mai adeguata all'impegno profuso?
Giovanbattista Tona parla del suo padre spirituale, Don Pino Puglisi, assassinato dai mafiosi; Mistretta gli chiede di parlare del germe della sua “vocazione” e lui risponde con assoluta limpidezza: «(...) quanti letterati e quanti artisti sono venuti dalla nostra terra, ma evidentemente non sono bastati ad ingentilirla e ad evitare una deriva come quella che vivevamo negli anni Ottanta. Allora l'arte e la cultura non bastano. (…) bisogna cercare di recuperare la dimensione delle regole. E quindi la dimensione del giuridico e dell'uomo che vive in società (...)».
Sergio Lari parla di carenze di organico e superlavoro e accenna al clima di ostilità che non riguarda soltanto il ruolo del pm ma più in generale quello della magistratura giudicante, che trova eco sui mass media, determinando nei magistrati la sensazione spiacevole di essere isolati nel contesto sociale. In effetti sembra che il magistrato non sia un buon comunicatore e i suoi rapporti con la stampa, la trasmissione della propria immagine professionale e delle peculiarità del suo lavoro, siano conflittuali. Onelio Dodero rileva: «Oggi, chiunque sia sotto inchiesta ottiene acritiche solidarietà e subito prende avvio il processo a chi sta facendo le indagini. Stranezze tutte italiche: chi indaga a sua volta viene parallelamente indagato e messo sotto la lente d'ingrandimento del processo mediatico da chi spesso non ha letto una carta del processo (quello vero).» Domenico Gozzo ricorda che Pier Camillo Dovigo una volta disse che lui si sentiva come il cane che viene preso a calci dal padrone quando si mette ad abbaiare contro il ladro che sta entrando in casa. Facendo un paragone col passato, Lari riconosce alla società civile di oggi una maggiore consapevolezza del ruolo di controllo della legalità che doverosamente la magistratura è chiamata a svolgere, spesso supplendo ad una patologica carenza di controlli sul versante politico-amministrativo.
Giudici di frontiera è, insomma, un testo da trincea che ricostruisce un arco temporale di lotta alle mafie nel territorio nisseno che parte dagli anni Quaranta, con Don Calò e sale fino alla nostra contemporaneità, delineando i traffici, le dinamiche in seno alle organizzazioni, gli omicidi e le ferite inferte alle Istituzioni. Le pagine a mio avviso migliori sono quelle dove risalta l'umanità di questi professionisti, garanti di “terzietà” e “giustizia”, defraudati di intere porzioni di vita, con le loro famiglie. Dice Gozzo in un passaggio della sua intervista: « (...) noi (lui e la moglie, n.d.r.) eravamo consapevoli della scelta fatta, mia figlia no, e a lei hanno rubato una parte importante di vita. Ha avuto un rapporto molto brutto con questa realtà (…); (…) adesso ha capito quello che facciamo e le ragioni delle nostre scelte, ma ne vuole rimanere fuori.»
Alcuni dei colloqui con questi giudici illustrano interessanti aspetti sulla figura dei collaboratori di giustizia, preziosissimi per gli inquirenti al fine di comprendere meglio i rituali e le relazioni gerarchiche tra i vari affiliati, l'atrocità e la barbarie derivanti dagli sgarri e dalla compromissione dei rapporti di potere in seno alle varie famiglie (emblematico e raccapricciante, tra tutti, il racconto dell'uccisione del giovane Giuseppe Tumeo; una morte inutile per aver scippato, senza saperlo, la mamma del boss Cavallo). Alcuni pentiti divengono delatori per migliorare la loro situazione detentiva, con un mirato opportunismo; altri, come racconta Antonino Patti, si pentono sinceramente, riconoscendo di essere stati stritolati in un meccanismo perverso e letale quand'erano giovanissimi: «Ho conosciuto pentiti che con la maturità hanno preso profonda e drammatica coscienza degli errori commessi nel loro passato; gente che non ci dorme la notte per quello che ha fatto». Su questi portatori di sangue e lutto aleggiano, contrastandoli, i volti luminosi di Falcone e Borsellino, a più riprese evocati nel corso delle interviste dai colleghi che li conobbero; e tanti prima di loro e dopo di loro, presidi integerrimi di legalità e giustizia. Falcone diceva che la criminalità organizzata è un fenomeno umano e forse finirà con l'umanità. Ma la Sicilia, per Onelio Dodero, al cui pensiero ci associamo, deve perdere quel fatalismo per cui nulla può cambiare. Le cose cambiano quando davvero si vuole che cambino.
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