Giuseppe Casarrubea
D.: Professor Casarrubea, nello scorso mese di maggio Lei ha depositato presso la Questura di Palermo un’ampia e circostanziata memoria avanzando forti dubbi circa l’autenticità delle foto del corpo morto ritrovato nel cortile dell’avvocato Di Maria a Castelvetrano e successivamente spostato presso l’obitorio di quel paese. Quel corpo, secondo la versione ufficiale del 5 luglio 1950, era del bandito Salvatore Giuliano, ucciso in un conflitto a fuoco dai Carabinieri. La sua richiesta di esumazione del cadavere per confrontarne il DNA con i suoi parenti viene accolta dal Procuratore aggiunto Antonio Ingroia. Qual è stata la sua impressione sull’enorme campagna mediatica suscitata da tale decisione?
R.: La vicenda del terrorista nero Salvatore Giuliano si colloca alle origini della nostra storia repubblicana e si presenta fin dall’inizio come una storia emblematica. Perchè servì a nascondere l’attacco violentissimo contro il processo di democratizzazione dell’Italia post-fascista e a lasciare impuniti gli autori di parecchie stragi: da Portella della Ginestra (1° maggio 1947) a Bellolampo (19 agosto 1949). Questa operazione congegnata dai Servizi di intelligence nella fase che precede la nascita di Gladio e della Nato, ha un suo tempo di gestazione proprio in quel momento e si manifesta con forme di propaganda occulta alle quali si deve, tra l’altro, la costruzione del mito del bandito gentiluomo che toglie ai ricchi per dare ai poveri. Queste forme di propaganda persistono ancora oggi, nonostante il crollo del muro di Berlino, la scomparsa del Pci di Berlinguer e la sparizione della vecchia Urss. La vicenda Giuliano, quindi, serve a evidenziare la grave insufficienza critica e la carente autonomia dei mezzi di informazione di massa che riprendono, in modo meccanico, gli antichi condizionamenti mediatici, senza tener conto delle ricerche di questi ultimi anni, e della necessità di ripristinare una corretta informazione da devolvere a beneficio di una classe dirigente più consapevole. A tutti i livelli. Anche di una società più critica e matura.
D.: Il Procuratore Ingroia ha ammesso che qualora le indagini avviate accertassero che lo scheletro sepolto nella tomba della cappella di famiglia non apparterrebbe a Salvatore Giuliano, bisognerebbe riscrivere la storia della Sicilia da sessant’anni a questa parte. Lei è lo storico che praticamente ha dedicato la sua vita ai fatti che vanno dal “43 al “50. Ci vuole brevemente esporre il suo pensiero?
R.: Il Procuratore ha ragione. Ma aggiungo che questa necessità (di riscrivere la storia siciliana degli ultimi sessant’anni) rimane anche nel caso che quel corpo sia quello di Giuliano. Perchè le falsità delle relazioni ufficiali su un conflitto a fuoco mai avvenuto, e sulla morte violenta di una persona (sia pure un criminale incallito) sono tante e tali che occorrerebbe indagare bene quello che accadde. Per uscire dai soliti luoghi comuni. Ad esempio, è assai improbabile che Giuliano sia stato ucciso da Gaspare Pisciotta.
Nell’ipotesi avanzata da Ingroia si avrebbe l’aggravante delle responsabilità di quanti (e alcuni potrebbero essere ancora in vita) trattarono Giuliano esattamente come fu trattato Kappler, quando si favorì la sua fuga dal carcere in cui era rinchiuso. Solo che Giuliano aveva sulle spalle più crimini di quanti ne avesse Kappler con l’eccidio delle Fosse Ardeatine.
D.: Dai suoi libri “Lupara nera”, “Storia segreta della Sicilia”, “Salvatore Giuliano: morte di un capobanda e dei suoi luogotenenti”, “Fra’ Diavolo e il governo nero. Doppio stato e stragi nella Sicilia del dopoguerra”, “Portella della Ginestra, microstoria di una strage di Stato” e altre pubblicazioni, si apprendono tesi secondo le quali il bandito Giuliano sia stato al soldo dei servizi americani, o di quelli deviati dello Stato e che addirittura lo stesso Giuliano sia stato visto in diverse località italiane, anche del Nord. Come poteva un uomo braccato dalle Forze dell’Ordine muoversi così facilmente in un periodo in cui mettere il naso fuori dalla porta poteva essere letale?
R.: La risposta a questa domanda la diede il capomafia di Borgetto Domenico Albano al giudice Gracco D’Agostino, durante il processo di Viterbo. Alla domanda di quest’ultimo che gli chiedeva cosa pensasse di Giuliano, Albano rispose che la banda Giuliano era, nei fatti, un “plotone di polizia”. Cioè prendeva ordini anche dalle forze dell’ordine. Fu questa la vera rivelazione di Pisciotta che era stato un membro della Pai (Polizia dell’Africa italiana) in epoca nazifascista; era diventato poi autista della divisione Goering sulla linea Gustav (riforniva l’esercito nazista con un camioncino), per diventare in ultimo uomo nelle mani del capitano dei Cc Antonio Perenze, e del colonnello Ugo Luca dal quale prendeva ordini direttamente, a partire dal settembre 1949. Allo stesso modo di come Fra’ Diavolo, agente del controspionaggio della Rsi, era diventato confidente dell’ispettore di Ps in Sicilia, Ettore Messana. E l’elenco potrebbe continuare. Dopo il crollo del nazifascismo saltarono tutti sul carro del vincitore, mettendosi a disposizione degli Alleati contro i partiti antifascisti. Ecco perchè la polizia non li poteva prendere. Non ne aveva nè voglia nè convenienza.
D.: Che ruolo ha avuto, secondo Lei, il Movimento per l’Indipendenza della Sicilia e il suo cosiddetto braccio armato EVIS nell’azione di Giuliano?
R.: L’Evis è un esercito fantomatico. Di fatto, dopo l’uccisione di Canepa, l’anima di sinistra di questo malconcepito battaglione armato al servizio dei neofascisti e dell’aristocrazia nera, l’Evis diventa un insieme di bande armate delle quali l’unica a restare in vita sarà quella di Giuliano, espressione dell’aristocrazia nera armata. La spiegazione di questo fenomeno è il fatto che alcuni uomini della banda Giuliano si formano in vere e proprie scuole si sabotaggio e per attentatori, i cui capi sono uomini delle SS, della Sipo e dell’Sd germanico. Il Mis è un movimento antistatale e filofascista guidato da uomini che in parte sono legati a doppio filo con il regime fascista, come, ad esempio, Andrea Finocchiaro Aprile, in parte sono egemonizzati dalle mafie locali.
D.: Alla luce di quanto sopra, pur nel rispetto della sentenza del processo di Viterbo, se fosse provato, come ormai le perizie sembrano confermare, che la banda Giuliano, non sparò sui contadini a Portella, non crede che il corso della storia siciliana e italiana, nato dalle ceneri del fascismo, abbia potuto avere risvolti più favorevoli per il futuro della nostra Isola?
R.: Le perizie confermano in ben due processi, dei quali il secondo si chiude con l’Appello di Roma del 1956, che a sparare a Portella è la banda Giuliano che per l’occasione utilizza armi di grande potenza balistica, di lunga gittata come il mitragliatore Breda, il moschetto 91, il mitra Beretta e altre armi da guerra. Solo che la banda non opera da sola. Ha l’appoggio di alcuni elementi della Decima Mas, e di altre formazioni alle quali lo stesso Giuliano aderisce; nonché della mafia che tiene un summit a Kaggio, nei pressi di Portella, quasi alla vigilia della strage. L’archetipo di Portella della Ginestra segna l’inizio della storia stragista dell’Italia.
D.: Come giudica le deportazioni, le torture, le percorse, le confessioni estorte, di cui ha scritto anche il grande sociologo Danilo Dolci, cui fu sottoposta la popolazione di Montelepre? E quali conseguenze ebbero quelle confessioni nel processo di Viterbo?
R.: Ci furono naturalmente degli abusi e il Rapporto giudiziario della strage omise di riferire fatti che riguardavano la possibilità di arrivare ai mandanti. Ma il risultato di tutto è questo: Giuliano non mise mai piede in tribunale; scomparve prima che avesse pieno svolgimento il processo. Molti suoi uomini furono uccisi prima della sentenza. E altri scapparono in America, come il cognato di Giuliano: Pasquale ‘Pino’ Sciortino, l’organizzatore delle stragi del 22 giugno 1947 contro le Camere del Lavoro.
Dolci incontrò alcuni banditi in galera. Erano i pesci piccoli che sapevano appena mettere la loro firma e non avevano nessuna consapevolezza del gioco molto più grande di loro, che li aveva risucchiati come in un vortice.
(intervista concessa a Pino Sciumè per il sito www.perlacitta.it)