Salvatore Giuliano (manifesto)
In occasione dell’uscita del libro La scomparsa di Salvatore Giuliano di Giuseppe Casarrubea e Mario J. Cereghino (Bompiani, 2013) in libreria dal 3 gennaio, pubblichiamo, per gentile concessione della Casa Editrice, il paragrafo riguardante l’approccio che il grande regista napoletano ebbe con uno dei fenomeni più tristi di quegli anni della nostra Repubblica (GC e MJC): il banditismo e la sua dipendenza politica.
Il primo a dare una lettura suggestiva della scomparsa di Giuliano è il regista napoletano Francesco Rosi con il film “Salvatore Giuliano”, prodotto da Franco Cristaldi e uscito nelle sale cinematografiche nel 1961. Abbiamo provato sempre l’impressione di trovarci di fronte a un bel film, a una lettura attenta ai fatti realmente accaduti, a un’opera pervasa da realismo cinematografico di indiscutibile bellezza e rigore storico. Sia perché i protagonisti sono in gran parte non attori ma testimoni delle vicende narrate, sia perché le scene si susseguono coinvolgendo lo spettatore sequenza dopo sequenza. Infine per l’ottima direzione della fotografia in bianco e nero di Gianni Di Venanzo, che ricorda i cinegiornali del dopoguerra; per le musiche di Piero Piccioni; per la sceneggiatura di Suso Cecchi D’Amico, Enzo Provenzale e Franco Solinas.
Ma a rivedere la pellicola, ora che ci avviciniamo ai suoi cinquant’anni, e ora che sul capobanda di Montelepre ne sappiamo molto più di prima, ci assalgono non pochi interrogativi e qualche inquietudine. Da cosa deriva questo stato d’animo? A prima vista, solo da alcuni particolari. Come quando, in via Condotti a Roma, passiamo davanti alle vetrine dei grandi stilisti con i loro capi di vestiario dai prezzi esorbitanti. Ma a guardare meglio, qualche volta, scopriamo che alcuni dettagli non convincono: un bottone fuori posto, una cravatta annodata male, una camicia non intonata alla giacca.
La narrazione del film prende le mosse dalla scena del cortile di Castelvetrano. La ricostruzione sembra perfetta. Ma fino a un certo punto. Non risulta infatti che polizia, carabinieri e Servizi abbiano permesso a una folla di fotografi e giornalisti di irrompere nel cortile per fotografare quel corpo disteso a terra. Ce lo dimostra nella realtà una sequenza di foto scattate, quella mattina del 5 luglio, da Carnemolla e da Montalto. Queste ultime, oggi proprietà dell’archivio Corseri di Castelvetrano. La folla è tenuta a debita distanza da un cordone di carabinieri. Solo pochi fotografi hanno il permesso, a un certo punto, di avvicinarsi per qualche scatto. Non a caso il cinegiornale della “Settimana Incom”, proiettato in tutti i cinema d’Italia qualche giorno dopo, mostra solo il cortile vuoto con una pozza di “sangue” nel punto in cui giaceva Giuliano. La scena del film di Rosi è preceduta da un cartello. Leggiamo che i fatti narrati si svolgono in quella landa di Sicilia famosa per essere il “regno di Giuliano”. Quasi che l’isola sia fuori dal tempo e dal mondo, immersa nella sua secolare condizione tribale.
Ma le cose, negli anni Quaranta, non stanno così. Al contrario. Dopo lo sbarco alleato la Sicilia, prima regione dell’Italia liberata, è in pieno fermento. Torna la libertà di stampa e di associazione. Cominciano a risorgere sindacati e partiti. Nel 1944 sono varate le leggi di riforma agraria del comunista Fausto Gullo. Il mondo contadino si mobilita. Per la prima volta governo nazionale e paria della terra si uniscono in un’unica battaglia. E’ il risultato dell’unità delle forze antifasciste che vede l’ingresso, nel marzo 1944, dei comunisti e dei socialisti nella compagine governativa. Prima con Badoglio, poi con Bonomi e Parri e in ultimo con De Gasperi fino al 31 maggio 1947. E’ quello che scrive l’ambasciatore britannico in Italia, Noel Charles, nel luglio 1947. Pensavamo – dice – che la sinistra vincesse al Nord dove c’era stata la lotta partigiana e invece, a due anni dalla fine della guerra, il Sud ha stupito tutti diventando la punta di lancia del fronte popolare. Con piglio anglosassone rileva poi che il tesseramento del Pci è triplicato in dodici mesi.
Nel film di Rosi, del periodo 1943-’45 e di questo mondo che si batte per il progresso dopo vent’anni di fascismo, non c’è traccia alcuna. Se non nella scena, astratta da ogni contesto, della strage nel pianoro di Portella. Nessuna lotta contadina, nessuna fame di terra e sete di libertà. Nessuna vittoria. C’è solo un’improvvisa comparsa del separatismo, fotografato giusto nel momento in cui la sua sorte è segnata con l’arresto dei suoi leader ad opera del governo di Ferruccio Parri. Dunque, nella pellicola, manca la collocazione storica non solo della figura del bandito di Montelepre, ma di tutto un mondo reazionario che si oppone al processo democratico in atto. Il film ne ritrae i personaggi come marziani sbarcati sulla terra. E’ possibile che il mondo politico siciliano visto da Rosi si riduca a quattro esaltati che decidono le sorti della Sicilia urlando e battendo i pugni in un salotto aristocratico di piazza Bologni, a Palermo? Il film insomma non spiega che il Mis dell’ex fascista e massone Andrea Finocchiaro Aprile è tutta una cosa con i Servizi inglesi, con l’aristocrazia legata al nazifascismo, con le squadre armate antibolsceviche. Possibile che gli sceneggiatori siano ignari di fatti avvenuti appena dieci anni prima? Proprio loro che con i salotti della borghesia di sinistra e antifascista italiana hanno una frequentazione assidua?
Un ruolo fondamentale è svolto dalla voce fuori campo. Metallica e inespressiva come nei cinegiornali “Luce”. E non racconta la verità. Mentre la cinepresa ad esempio compie una lenta panoramica sulla piana che va da Montelepre a Partinico e al Golfo di Castellammare, lo speaker dice che il “regno di Giuliano” è protetto da “omertà, passione, terrore”. Intere città come Torretta, Carini, Partinico, Alcamo, Borgetto e la stessa Montelepre sono ritratte come luoghi medievali in preda a una banda, la cui arma più forte è “il muro di silenzio” eretto dalla popolazione. Un falso, questo, contraddetto dalle decine di testimoni che davanti ai giudici di Viterbo dicono quello che hanno visto, facendo nomi e cognomi dei mafiosi individuati dalla folla sul pianoro di Portella. Alcuni sono uccisi nelle settimane successive alla tragedia, come nel caso di Calogero Caiola, fulminato davanti alla sua abitazione subito dopo la chiusura del “Rapporto giudiziario” sulla strage, nel settembre 1947. Ha visto in faccia gli assassini ed è andato a chiamare i carabinieri in sella a un cavallo. Altri siciliani onesti saranno vittime della lupara bianca anche a distanza di anni. Insomma, il popolo non ha paura di parlare perché sa che è l’unico modo per arrivare alla verità. Altro che omertà dei siciliani. Lottano per la terra, si organizzano in sindacati, votano Pci e Psi, fino a vincere le prime elezioni regionali dell’Italia democratica, il 20 aprile 1947. Un crescendo straordinario di democrazia e di civiltà, inimmaginabile persino al Nord.
Ma com’è questa Sicilia vista dal comunista Rosi, classe 1922? Sembra di assistere a un vecchio western popolato da tribù indiane, da soldati della cavalleria dell’Esercito Usa, da giornalisti affamati di notizie sensazionalistiche. Il tutto all’interno di un paesaggio impervio tipo Arizona o Nuovo Messico. La popolazione di Montelepre è dipinta come selvaggia, in lotta perenne contro i soldati “bianchi” venuti dal Nord. Civiltà contro barbarie. Un luogo dove si sconosce l’Italia e si parla una lingua incomprensibile. Come nota il generale americano George Patton, appena sbarcato nell’isola nel luglio 1943. Questi siciliani, dice, puzzano d’aglio, cantano dalla mattina alla sera come le cicale e cucinano e mangiano in mezzo alla strada. L’Esercito che occupa Montelepre tratta la popolazione come una colonia etiopica, con gente che urla la sua protesta e con donne dai lunghi scialli neri che, come avvoltoi, si scagliano contro i soldati per liberare i loro uomini dalle catene. Montelepre è il luogo simbolo della Sicilia da redimere alla civiltà, un paese nemico dell’Italia, da sottoporre allo stato d’assedio. Uomini e donne appaiono chiusi in una disperazione atavica, privi di speranza e di futuro. Nella costruzione di tale emblema, i paesi siciliani sono come fortini inerpicati sulle montagne, lontani dalla civiltà e dalle vie di comunicazione. Qui non arrivano notizie e il mondo sembra finire sotto il campanile. Anche la lingua ha cadenze e forme espressive arabeggianti. E’ inevitabile quindi che lo spettatore si proietti su queste vittime schierandosi dalla parte del separatismo, sotto una spinta emotiva forte e coinvolgente.
Dunque, due elementi giocano a favore di una visione distorcente della verità storica. Il primo è il sovrappeso ideologico di un separatismo confuso e impulsivo. Il secondo è la totale rimozione della presenza nell’isola delle forze del Comitato di liberazione nazionale. Forze che, invece, sono cruciali nel determinare il contenimento della follia indipendentistica e la costruzione del processo dell’autonomia siciliana. Il predominio di una lettura quasi lombrosiana conduce all’errore inevitabile di considerare la Sicilia come una terra dove regna sovrano il caos.
Come ci racconta nel maggio 1947 Pemberton Pigott, un funzionario dell’ambasciata britannica di Roma, a proposito del Mezzogiorno. Il suo lungo rapporto inizia con un raffronto tra le città del Nord Africa e quelle del Sud d’Italia. Rileva ad esempio che molti villaggi assomigliano a quelli algerini e marocchini: “Cosenza potrebbe sorgere benissimo nella zona di Tizi-Ouzou, in Marocco, mentre i villaggi tra Brindisi e Lecce potrebbero essere situati tra Setif e Algeri.” E conclude: “Non è senza significato che vi sia una somiglianza tra i livelli di vita degli arabi nordafricani e delle popolazioni più povere del Meridione d’Italia.” Mentre Pigott capisce che “la crescita comunista è da mettere in rapporto con la povertà”, ossia con il desiderio di riscatto delle popolazioni abbandonate a se stesse, Rosi sembra non comprendere questo fondamentale elemento. Ora, che siano generali e funzionari anglosassoni a guardare all’Italia del Sud come ad una colonia asiatica o africana, è in qualche modo spiegabile. Assai meno si giustifica in un regista nostrano e nei suoi sceneggiatori. Tutti apertamente di “sinistra”.
La grande isola mediterranea appare ai loro occhi come l’Afghanistan odierno in preda a mafie, rapinatori, estortori, assassini e bande armate. L’inciviltà ai suoi massimi livelli. Con svarioni sconcertanti. Come ad esempio quando si dice che il separatismo non è stato inutile perché ha dato origine nel maggio 1946 allo Statuto dell’Autonomia siciliana. Un falso storico imperdonabile che persiste anche al giorno d’oggi e che continua ad essere predicato da qualche cattedra di storia delle accademie sicule. Atteggiamenti che derivano da un semplice descrittivismo sociologistico che non altera in nulla il fenomeno che registra, oppure da una visione acritica e pedissequa della storia come luogo dove si sedimentano verità da non mettere mai in discussione.
In realtà, la storia è dinamica e serve a mutare la condizione umana e a intervenire, diremmo quasi in senso marxiano, nella prassi del reale. I fenomeni umani non possono essere oggetto di mere osservazioni empiriche ma vanno dominati con una precisa strategia operativa, come seppe fare il triestino Danilo Dolci in Sicilia mediante la sintesi tra progetto e azione costante di controllo e di intervento sul territorio. Contro la mafia, il quieto vivere, gli interessi personali, gli inciuci politici e la disinformazione dei media.
Ben altra è la storia dell’Autonomia siciliana, legata, all’opposto delle strategie terroristiche della banda Giuliano e dei separatisti, alla lotta partigiana e all’unità delle forze antifasciste che hanno fondato lo Stato repubblicano e democratico e dato origine allo Statuto del 15 maggio 1946. Epoca in cui il capobanda è in tutt’altre faccende affaccendato, tra Squadre armate Mussolini (Sam), boss di mezza Sicilia, sbirri e spie di ogni risma. Sono in sua compagnia personaggi loschi come Salvatore Ferreri e Selene Corbellini, ex terroristi nazifascisti, guidati nell’isola da Fortunato Polvani, ex federale di Firenze e responsabile, fino alla primavera del 1945 a Salò, delle “Brigate Nere Italia Invasa”. Praticano la lotta armata contro i partiti democratici e di sinistra e i sindacati dei lavoratori. Giuliano non è solo.
Ma come è possibile che gli sceneggiatori del film siano vittime di un’amnesia così stupefacente? La perdita di memoria storica e politica fa brutti scherzi. Appena quindici anni prima, giornalisti come Riccardo Longone e dirigenti comunisti di primo livello come Pietro Ingrao, scrivevano in articoli e saggi, anche su “l’Unità”, come stavano veramente le cose. E cioè che la Sicilia e il Mezzogiorno, dal 1943, erano in preda alle “teste di morto delle squadre d’azione”, cioè agli uomini della Decima Mas del comandante Junio Valerio Borghese, dei Servizi nazifascisti prima e delle Sam, dei Far (Fasci di azione rivoluzionaria) e dell’Eca (Esercito clandestino anticomunista) dopo. Protetti, finanziati e armati dall’intelligence americana con sede a Roma. Altro che “Giuliano milite ignoto del nuovo sicilianismo” come titola un articolo del sociologo Pippo Russo sulle pagine palermitane de “la Repubblica” del 6 novembre 2010.
L’Evis è definito dal Comando militare alleato, nel gennaio 1945, il braccio armato al Sud della Repubblica sociale italiana, mentre l’intelligence dei carabinieri promuove la formazione di bande armate anticomuniste in Calabria e in Sicilia, nel giugno 1946. Ma anche il Pci ha i suoi informatori segreti.
E dire che Rosi fa parte, tra il 1947 e il 1948, di una troupe cinematografica al seguito di Luchino Visconti che nell’isola prepara “La terra trema”, come ci racconta Filippo Ceccarelli in un lungo articolo pubblicato da “la Repubblica” (“La terra trema, il giallo del film dalla doppia vita”, 29 giugno 2008). E’ in questa circostanza che Visconti pensa di realizzare un documentario a caldo sull’eccidio di Portella, avviando ricerche e raccogliendo testimonianze. Ma qualcosa va storto. Il Vaticano si intromette e il progetto è messo da parte. A distanza di dodici anni, nel 1960, le cose sembrano mutate. La scomparsa di Giuliano, ora, diventa un fatto centrale. Un elemento di certezza attestato dalla struggente scena della madre, Maria Lombardo, che bacia il volto del figlio ormai privo di vita. Ma si tratta di un falso, come ci racconta Marianna Giuliano, la sorella del bandito, in un suo libro del 1987. La madre e la figlia Giuseppina svengono a dieci metri dal cadavere, nell’obitorio di Castelvetrano. E ciò basta ai carabinieri presenti per attestare che quel corpo appartiene effettivamente al bandito.
Il regista mette poi in scena gli ultimi giorni di Gaspare Pisciotta al carcere borbonico dell’Ucciardone, nel febbraio 1954. I fatti per Rosi sono incontrovertibili. Quando tutto in questa storia è problematico, oscuro, da chiarire. Al contrario nella pellicola le cose si risolvono in un guscio antropologico. Manca l’ampio respiro della Storia. Questo è il problema. Il contrasto tra realtà e finzione. Tra l’essere e l’apparire. Giuliano è un’entità simbolica. Rappresenta la condizione siciliana di un mondo alle prese con uno Stato nemico e lontano. Rosi ripercorre pericolosamente la linea sottile tracciata alcuni anni prima dal giornalista-spia americano Mike Stern, che costruisce un inesistente Robin Hood siculo. E’ lui l’intreprete invisibile e non identificabile del popolo che lotta. In modo paradossale, su questa stessa linea, si colloca più tardi il film visionario e depistante di Michael Cimino. Ma in questa Italia tutto può accadere. Anche l’inversione dei giochi, quando la finzione diventa realtà e la verità si frammenta in mille schegge. Il dibattito è aperto. Con mezzo secolo di ritardo.