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Giuseppe Carracchia: Fiorire

Da Narcyso

Giuseppe Carracchia, IL VERBO INFINITO, Prova d’autore 2010

Giuseppe Carracchia: Fiorire
“L’orgoglio dei vent’anni è debole fortezza:/vergogna di mostrare una necessità, un’incertezza”.
Si può provare a leggere queste poesie partendo, appunto, da questi versi sul senso dell’adolescenza, un misto di spavalderia e timidezza, di slancio verso nuovi orizzonti e ripiegamenti sul ricordo, già mitico, dell’infanzia.
Età assertiva, soprattutto, che vuole azioni da compiere, come in effetti conferma lo stesso autore: “Questi sette verbi (…) rappresentano qui un dizionario esistenziale una seppur momentanea e pur sempre cangiante mappa poetica, in cui il tesoro, alla fine, tra dolori e gioie, è una vita cantata a favore della bellezza e del coraggio”.
L’opera, dunque, è attraversata da un sostanziale ottimismo verso la vita, da uno slancio a cantare, per il quale Giuseppe Carracchia utilizza gli strumenti di una cantilena gioiosa, di un rimario piegato alle esigenze del suo dire, mostrando così una netta controtendenza rispetto ai modi più ricorrenti del fare poesia oggi.
Quali sono, allora, questi sette verbi declinati all’infinito? Fiorire, esistere, amare, riposare, sbendare, condividere, vivere. Rappresentano occasioni di riflessione e di conoscenza, piuttosto che descrizione di stati, di condizioni. Per esempio, nella sezione “sbendarsi”, il figlio si rivolge al padre attraverso una preghiera:

Guarda la mia mano come segna
un cerchio, tocca s’hai il coraggio
l’emistichio d’aria al mezzo

Leggi le mie dita contare gli uccelli:
lenzuoli in volo sulla mia testa
giubilo di palloncini in festa

Guarda come si congiungono
le mie mani, strette a formare
non due palmi chiusi ma figure
ariose: uccelli, conigli, lupetti, gattini
vere preghiere e non preci meschini

[sono un uomo
voglio amare
voglio amore]

p. 39

Preghiera/richiesta col tono un po’ pretenzioso del fanciullo; ma anche incedere, erba voglio e prima saggezza per varcare la demarcazione che separa il sogno di un’età pre-concettuale, dall’essere nella pienezza che accoglie in sé tutti gli opposti. “La perfezione è la quotidiana cura dell’imperfetto”.
E ancora:
“Libertà è cadere”.
A questa richiesta di senso alla vita, si affianca il desiderio quotidiano di imparare dal viaggio (il viaggio ti sia meta); viaggio nell’ingenuo e generoso incedere a passi di danza e filastrocca finché, forse, la lingua non sia capace di recuperare per sempre tutto il perduto e il dimenticato, facendolo rivivere in questa consapevolezza: “Questo ci rimane e questo pure ci avanza/predisporre miracoli e cure, vivere/facendo della vita una danza”.

Sebastiano Aglieco

***

V

Solo la verità vive ignorando
tutto, consapevole di morire.

*

Ho trangugiato l’odore del bucato
appeso a fili sottili, l’attesa della tua
camicia blu: farsi cielo a stento, finché
non torni tu a colmare quel vuoto
d’aria: riempirsi di vento, fingendosi te.

*

III

La perfezione è la quotidiana cura dell’imperfetto
serenamente dunque lo ammetto:
Mi manco ancora un po’ di tutto questo
ma ci provo, e per il mio provarci io esisto.

*

Il mio sentiero come il mio sentire
è diverso dal tuo ma se io sento e
cammino significa che puoi farlo
anche tu. Stammi vicino.

*

Il viaggio ti sia meta
e casa tua, il mondo:
salvifico miraggio
profezia segreta.

*

Timida vergogna è la forza dei vent’anni,
una paura, un orgoglio esistenziale: la necessità
di essere in due almeno e minimo per cent’anni.

***

dello stesso autore:”La virtù del chiodo”. Edizioni L’Arca Ferlice 2011, con una litografia di Aki Kuroda


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