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Giuseppe Conti, Firenze –  “ i’grillo canterino ”

Da Paolorossi

Telemaco Signorini - Mercato Vecchio a Firenze 1882Telemaco Signorini – Mercato Vecchio a Firenze 1882

Il giorno dell’Ascensione, quando capitava in una di quelle giornate di primavera che a Firenze sono un vero incanto, una poesia addirittura, la “festa del grillo” alle Cascine riusciva qualche cosa di meraviglioso. Nelle famiglie se ne discorreva otto giorni innanzi, perché quella del grillo non aveva nulla di comune con le altre feste. L’idea della scampagnata non solo, ma di una folla enorme, di quasi tutta la cittadinanza, si può dire, che andava a passar la giornata sui prati o nei boschi delle Cascine, era un’attrattiva singolarissima.

La consuetudine ormai inveterata d’andare a “levare il grillo dal buco,” era il pretesto, era la finzione, inventata dai giovanotti e dalle ragazze per allontanarsi dalle mamme che stavan vigilanti, perché essendoci passate anch’esse, da quei ferri, ai loro tempi, sapevan per prova che i dami, con la scusa del prezzemolo giravan tutto l’orto! Quante coppie s’internavano nei boschetti per cercare il posto buono dove erano i grilli; e anche quante ragazze sole sole, come distratte, si allontanavano con aria indifferente dalla comitiva occupata a preparar la merenda, e si perdevano per ritrovarsi poi col giovanotto che, poveretto, non essendo pratico della località si perdeva anche lui!

Era una di quelle giornate, che nessuno avrebbe voluto veder finire, tanto ci pigliavan gusto tutti, a quel giochetto di cercare il grillo canterino, che serviva, povera bestia, di pretesto a tante cose svariatissime, una più bella e più gustosa dell’altra.

Ora, anche questa è ridotta anziché una festa, una vera melanconica consuetudine di pochi seguaci delle tradizioni, che si potrebbero chiamare i bigotti delle medesime.

Ma procediamo con ordine. La mattina dell’Ascensione, poco dopo l’alba, si cominciavano a veder delle brigate con le sporte, o con dei panieri coi fiaschi di vino, e tegami, e bicchieri, e piatti, che s’avviavano passo passo verso le Cascine. Per tutta la strada era un chiacchierìo, un brusìo di quella gente, che pareva andasse come si soleva dire allora, nelle France Maremme! Ma più baccano di tutti lo facevan quelli coi corbelli dei grilli – che molti, per farli confondere, dicevan che eran piattole o scarafaggi che dir si voglia – e che urlavano: I’ ho i’grillo canterino! E i babbi compravano il grillo ai figliuoli; e la sera mettevan fuori della finestra la piccola gabbia di fusti di saggina, con gran giubbilo dei pigionali, che la notte non potevan dormire.

Verso le cinque, appena era spuntato il sole, la popolazione si faceva più fitta, e tutti andavano al Palazzo, lassù da Neri, a bere il latte munto d’allora. Questa era la tradizione, il rito, l’obbligo, per chi voleva solennizzare in tutte le regole l’Ascensione. I fiorentini ci facevan la bocca fin dalla sera innanzi a quel latte, che Neri, il capoccia della famiglia colonica che aveva in affitto dalle “Regie Possessioni” il podere delle Cascine, faceva mungere per due crazie il bicchiere.

Dal Palazzo, la gente si sparpagliava pei viali, pel bosco e nei boschetti detti “gli Alberini,” onde accaparrarsi un buon posto all’ombra e cuocere all’aria aperta il desinare, e starsene in santa pace a mangiare sull’erba. Intanto si cominciava a veder qua e là il fumo delle legna, che si accendevano per far l’arrosto; e per l’aria si sentiva l’odore dell’agnello coi piselli cotti su certi fornelli che con la cestina portavan quelli che improvvisavano le trattorie.

Da un momento all’altro, dalla Porta al Prato dove principiavano allora le Cascine fino al Palazzo, si vedevan mettere le tavole apparecchiate e le panche per quelli che si fermavano a mangiare. Ognuna di queste trattorie, che erano innumerevoli, aveva cinque o sei fornelli di terra per cuocere l’agnello che, in quel giorno si mangiava per benedizione, in certi tegami grandi pure di terra, detti “di Cancelli;” e sul banco, piramidi di fiaschi di vino, di vermutte, e di vin bianco; e salami e prosciutti e ova sode, e ciambelle di pane alla casalinga, fresco, croccante, da far venire l’appetito anche a chi non l’aveva. Poi un’infinità di spiedi coi polli che giravano a quelle belle fiammate che parevan rosse per la luce del sole, che era un piacere. Coloro che s’eran portati il desinare o la merenda da sé, si mettevano a seder sull’erba, e alle otto si rifacevano a mangiare il salame, la mortadella, e le ova sode, a bever bicchieri di vino, a ridere e fare il chiasso come se fossero in un altro mondo, buttando per aria i fiaschi vuoti e facendo un baccano del diavolo quando cascavano in terra e andavano in bricioli. Per mantenere il buon ordine però, eran comandate in quel giorno due compagnie di fucilieri, che in tanti picchetti, facendo i fasci dei fucili, venivan distribuiti lungo tutto il viale di mezzo, nei prati, e dove c’era più gente.

Per alcuni anni, anche il principe Poniatowski insieme ad altri amici, si recò a far colazione alle Cascine, facendo apparecchiar le tavole passato il prato del Quercione, portando anche un discreto numero di servitori per tenere indietro i curiosi, che si sarebbero avvicinati tanto da impedir a quei signori perfino di mangiare.

Anche la Corte andava “di prima mattina” alle Cascine a far la consueta colazione al Casino – ossia al Palazzo – e quindi tornava in Firenze e si recava in Duomo alla messa solenne.

Molti tra i più morigerati ritornavano in città verso mezzogiorno portando la gabbia col grillo, stanchi e rifiniti come se fossero stati in capo al mondo. Ma a quella stessa ora, le tavole nei prati e nei boschetti eran prese d’assalto da una folla di gente che desinava, non potendo più frenare l’appetito eccitato in loro dalla fragranza di quei tegamoni d’agnello, che mandavano un odore da far venir l’acquolina in bocca.

La scena più caratteristica e curiosa, era quando i frati di Monte Oliveto, dall’altra parte dell’Arno uscivan sul prato, e di lassù davan la benedizione a coloro che eran a mangiare sull’erba. Molti che li scorgevano s’inginocchiavano, e dopo benedetti bevevan come spugne.

A mezzogiorno le stupende, le fantastiche Cascine parevano un grandissimo accampamento: l’effetto di tutta quella gente seduta alle tavole all’ombra dei secolari frassini, degli olmi antichi e delle quercie; e delle brigate attorno alle tovaglie stese per terra, che mettevan la nota stridente del bianco fra quel verde cupo e a quel mezzo buio del bosco, era d’un effetto novissimo, e tale che non ci s’immagina.

Per l’immenso spazio si sentiva un ciarlare, un ridere, un chiamare, un questionare da non averne idea. Era un frastuono che si udiva da lontano.

Molti che avevano alzato un po’ il gomito, si sdraiavano sull’erba e dormivano meglio che a letto, mentre altri cantavano, o improvvisavano, o facevano all’amore, o raccontavano i fatti degli altri, dicendo male di quanta gente conoscevano, come avviene dovunque, perché tutto il mondo è paese.

Dopo le tre, la scena cambiava aspetto.

Una compagnia di granatieri in gran tenuta si recava al Palazzo per il servizio d’onore, poiché alle quattro arrivava il Granduca con tutta la Corte. La folla allora lasciava le tavole, e si aggruppava nei viali per godere lo spettacolo del corso di gala, che riusciva forse il più bel corso dell’anno, al quale oltre ai Sovrani vi prendevan parte tutti i signori di Firenze. Verso sera la folla tornava in città facendo un gran chiasso, specialmente con qualche ubriaco che destava l’ilarità, se non metteva in pensiero chi era seco per timore d’entrare in impicci.

Al Palazzo aveva luogo il festino dato dal Granduca, “ed erano serviti rinfreschi ed acque acconcie.” La festa da ballo cominciava alle sette e mezzo: gli invitati andavano “in abito confidenziale e le signore vestite da passeggio.” Talvolta quei festini dell’Ascensione si protraevano fino alle due dopo mezzanotte.

( Giuseppe Conti, tratto da “Firenze vecchia – Storia, cronaca anedottica, costumi (1799-1859)” , 1899 )


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