"Cos'altro ci serve per comprendere che siamo tutti perduti su questo pianeta? Per capire che altro non ci resta che amarci?"
Edgar Morin
Interrompiamo il flusso delle nostre divagazioni (senza tuttavia uscire dal seminato dell'amore e i suoi ri-medi) a favore di una riflessione più natalizia, che mi piace introdurre con una canzone (clicca qui per ascoltarla)...
"Nel Grembo umido, scuro del tempio, / l'ombra era fredda, gonfia d'incenso. / L'angelo scese, come ogni sera, / ad insegnarmi una nuova preghiera: / poi, d'improvviso, mi sciolse le mani / e le mie braccia divennero ali, / quando mi chiese: "Conosci l'estate" / io, per un giorno, per un momento, / corsi a vedere il colore del vento. / Volammo davvero sopra le case, / oltre i cancelli, gli orti, le strade, / poi scivolammo tra valli fiorite / dove all'ulivo si abbraccia la vite. / Scendemmo là, dove il giorno si perde / a cercarsi da solo nascosto tra il verde, / e mi parlò come quando si prega, / ed alla fine d'ogni preghiera / contava una vertebra della mia schiena [...]". È Fabrizio De Andrè che, in quel capolavoro de "La buona novella" (1970), restituisce con grazia, delicatezza e appropriata ambiguità, quell'incontro fatale, sospeso tra amore, preghiera, sensualità, tra una giovanissima Maria e il suo angelo (Angelo?), quell'angelo che in ebraico è "malac", ossia letteralmente "messo", "messaggero", e non necessariamente quel soggetto con ali e aurea divina che tanta iconografia ci ha restituito (e, infatti, in nessun vangelo vi sono evidenti fattezze divine di questo personaggio). Chi è dunque quest'uomo?
Nell'opera apocrifa di Tommaso (secondo alcuni il V vangelo, il più importante tra quelli non accolti nel canone neotestamentario) troviamo, ad esempio, che Maria, figlia di Gioacchino, fu violentata nel tempio da un centurione romano di nome Caesar nel suo quattordicesimo compleanno, mentre era fidanzata con un falegname (Giuseppe).Ma, sia come sia, per fulmine d'amore, come vorrebbe De Andrè (che per altro ha tratto la sua "La buona novella" proprio dalle letture dei diversi vangeli apocrifi), o per violenza inaudita, come racconta Tommaso; sta di fatto che Maria rimane incinta. E qui inizia, per me, la storia del natale che più mi piace. Una storia che tanto attiene alle riflessioni che ormai da diversi mesi stiamo tessendo in questo spazio e il cui valore, come tutti i racconti, prescinde dalla sua verità, per sostanziarsi, invece, in una metafora, un messaggio sull'amore, un amore che supera tutte le insidie e, a discapito d'ogni apparente insuperabile ostacolo, si conclude con la nascita di un bimbo: quel terzo che non sono io e non sei tu ma che, al contempo, in virtù del nostro amore, ci racchiude, ci unisce, ci supera... Trova compimento, insomma, con il natale, quell'amore che è dono della persona alla persona (qualsiasi siano il genere e gli abbinamenti) e che, attraverso un patto d'amore in cui i due si danno e si ricevono, si fa altro da loro, immagine terza che li incarna, persino a prescindere dal fatto che questa incarnazione si concreti in un figlio. È dunque questa la storia del natale che raramente viene raccontata (fatta eccezione per il bellissimo libro di Erri De Luca "In nome della madre" a cui sono debitore). La storia di una ragazza, una ragazza come tante: fidanzata, destinata ad essere moglie e, forse, un giorno, ad essere madre. Una ragazza che, per dolo o per amore, rimane incinta, ma non è il promosso sposo il padre del bambino. Tragedia, dunque, è tanto più in quel tempo remoto. Il mondo, il suo mondo, di fronte al tal misfatto, le si potrebbe rivoltare contro; il suo destino... divenire fatale. L'onore macchiato, la reputazione, il biasimo della comunità, le accuse, i pregiudizi della gente... persino la legge. Il promesso sposo, infatti, dal punto di vista giuridico, potrebbe denunciarla, la giovane donna sarebbe così accusata di adulterio e, secondo gli usi del tempo, lapidata. Eppure... Eppure, tutto questo non accade. Succede, invece, che, Giuseppe, si fida di Maria, della sua parola, del suo e del loro amore. Apre le braccia alla sua amata e si fa carico di una responsabilità non sua, contro il luogo comune, contro il giudizio della gente, contro le avversità che vorrebbero quell'amore naufragare all'istante, fors'anche contro un certo istinto naturale che lo vorrebbe reagire a difesa del torto subito. Bene lo sa chi si occupa di mediazione quanto sia difficile aiutare gli amori in crisi o in caduta libera, magari anche a fronte di un tradimento, a superare l'istinto animale che ci possiede e ci fa reagire con rancore, rabbia, a volte violenza, per giungere, invece, ad essere un po' più umani ("umani più umani", mi piace dire) mettendo da parte la spinta intestina che fa divampare il conflitto distruttivo, per accedere all'utopia di un conflitto cooperativo. Accettare la soggettività dell'Altro, il suo essere altro da noi, "cosa non nostra", soggetto a se stante, con visioni e desideri che ci prescindono. Questo ha capito Giuseppe: che Maria è il suo amore, non cosa sua. Per questo è disposto a difenderla, a sposarla, anche se quella storia è talmente farlocca che solo per amore vi si può credere. Oppure, no. Forse Maria gli racconta il vero: la storia di un uomo, Angelo, un angelo, che ha amato e da cui è stata amata, per un giorno d'estate, un'istante di pura passione in cui i sensi e la carne hanno ceduto ad ogni precedente promessa. Questa è la versione che, personalmente, preferisco. Non la violenza descritta da Tommaso, ma la giovane Maria rimasta incantata da un incontro fatale, un colpo di fulmine che rapisce il cuore, il corpo, la mente. Ma poi... dopo la luce del fulmine, i sensi lasciano il campo al dirompente tuono che, col suo rombare, conduce nuovamente alla ragione... e quante volte è accaduto, e quante volte accadrà... L'amore creduto si trasforma, allora, in errore, Maria capisce che quell'uomo non è il suo uomo (e viene in mente un'altra canzone: "[...] Se ho sbagliato un giorno capisco che / l'ho pagata cara la verità / io ti chiedo scusa, e sai perché / sta di casa qui la felicità" cantava Caterina Caselli nel 1966). Così, Maria torna da Giuseppe e gli racconta tutto. E Giuseppe l'accoglie e diventa padre, padre di un figlio non suo che amerà, cui darà discendenza, a cui insegnerà la vita e il mestiere. Quanto coraggio in questa donna e in questo uomo che scelgono la strada della reciproca fiducia e si donano all'Altro con tutta la loro fragilità affinché venga accolta e curata. Letta da questa angolazione mi sembra tanto più convincente per i valori cristiani, e non perché lei si pente e lui la perdona, bensì perché entrambi si per-donano, si donano all'Altro privilegiando l'amore. E come non pensare, infine, ai 114 mariti, compagni, amanti, fidanzati, che, nel solo 2012, hanno ammazzato le donne che "amavano" o ai tanti altri che, senza arrivare ad uccidere, sono tanto lontani da questa idea dell'amore senza possesso, un amore che libera, anziché imprigionare, e libera fino all'estrema conseguenza di accettare che l'Altro si liberi di noi poiché la sua storia (sua e solo sua) ora volge altrove.
A questi amori difficili che faticano a scegliere la libertà che libera è dedicato questi blog e il mio augurio per l'anno a venire.