Una nuova monografia del giornalista triestino Rino Alessi riporta la nostra attenzione su Giuseppe Patanè, artista dal destino grande e sfortunato come pochi altri. Proprio quando stava ricevendo i riconoscimenti che la sua più che trentennale carriera aveva meritato, il direttore napoletano morì improvvisamente il 30 maggio 1989, a soli 57 anni, fulminato da un infarto sul podio del Nationaltheater di München mentre si accingeva a iniziare una recita del Barbiere di Siviglia. Nato a Napoli il 1° gennaio 1932, Giuseppe Patanè proveniva da una famiglia con tradizioni musicali illustri. Il padre Franco (1908 – 1968) fu un direttore d’ orchestra di rango internazionale e il nonno materno era Raffaele Caravaglios (1864 – 1941) leggendario direttore della Banda Musicale di Napoli, definito dalla stampa dell’ epoca il “Maestro dei Maestri” e il “Toscanini delle Bande Musicali d’Italia”, amico personale di Wagner e di altri grandi compositori come Mascagni, Cilea, Alfano e Sibelius. Formatosi al Conservatorio di S. Pietro a Majella proprio con Cilea come insegnante di composizione, Giuseppe Patanè calcò per la prima volta il palcoscenico a 14 anni cantando il ruolo di Geppino nella prima esecuzione assoluta di Miseria e nobiltà di Jacopo Napoli al San Carlo e a diciannove anni esordì come direttore con una Traviata in cui il protagonista maschile era Beniamino Gigli, il 14 novembre 1951 al Teatro Mercadante. Dopo alcuni anni di apprendistato nei teatri minori, la carriera di Giuseppe Patanè prese gradualmente il volo a partire dai primi anni Sessanta, con rapporti di collaborazione fissa prima con la Deutsche Oper Berlin e con la Wiener Staatsoper e poi con tutti i grandi palcoscenici lirici internazionali, dove era considerato uno dei direttori più esperti e apprezzati della sua epoca.
In Italia, pur se regolarmente invitato da grandi teatri come la Scala, il San Carlo e l’ Opera di Roma, il direttore napoletano era invece trattato con sussiego da una critica che lo snobbava, confondendo la sua esperienza e i suoi legami diretti con la grande tradizione direttoriale italiana con la routine. Come ricordava Davide Annacchini, nell’ introduzione a un’ intervista concessagli dal Maestro pochi mesi prima della sua scomparsa:
Con Giuseppe Patané, scomparso nel maggio 1989 a Monaco di Baviera dove era impegnato a dirigere il Barbiere di Siviglia, è sparito non solo uno dei direttori più stimati dei nostri tempi ma soprattutto uno degli ultimi esponenti dell’ antica scuola direttoriale, che da Toscanini a Serafin, da De Sabata a Votto aveva condensato in una sola figura tanto il musicista che l’ uomo di teatro, profondo conoscitore delle voci e delle convenzioni operistiche. Proprio sul rispetto di una certa tradizione, intesa come conservazione di un patrimonio di segreti, di malizie esecutive volte ad assicurare vitalità al testo musicale, ritenuto terreno su cui lavorare e non da rispettare pedissequamente come una falsa filologia tenderebbe a suggerire, poggiava lo stile del direttore napoletano, forse per questo motivo snobbato da certa critica intransigente. L’ esser rimasto da solo a sostenere tutta l’ eredità di un passato con convinzione assoluta e motivata (non dimentichiamo che Patané, figlio di una famiglia di musicisti, ebbe modo di conoscere e collaborare con i più grandi compositori e direttori di questo secolo) certo non lo favorì in un periodo in cui concedersi la benchè minima licenza equivaleva a un tradimento dell’autore o, peggio ancora, ad un antiquato modo di pensare.
Sulle qualità direttoriali di Giuseppe Patanè, penso sia utile rileggere questo giudizio di Rodolfo Celletti, che fu uno dei primi critici italiani a riconoscere la sua grandezza di interprete:
La statura del musicista era per molti aspetti eccezionale. Patané vantava anzitutto una memoria mostruosa. Per molte partiture del repertorio italiano era una sorta d’ archivio vivente. Si narra che, all’ inizio della carriera, trovandosi in uno sperduto teatro straniero, ricostruisse a memoria le parti strumentali della Bohéme, non essendo giunte a destinazione quelle richieste dall’ impresariucolo che aveva organizzato le recite. La memoria, tuttavia, non era che un aspetto del singolare congegno musicale che Patané incarnava. Altrettanto eccezionali erano l’ istinto e la sensibilità. Coglieva il rapporto fra situazione scenica, contesto strumentale e vocalità con un’immediatezza che sorvolava qualsiasi problematica. Aveva anche un gesto ampio, incisivo, eloquente che, morbido o imperioso che fosse, andava sempre a segno per chiarezza e forza di suggestione. Conosceva il respiro dei fraseggi vocali, guidava le orchestre lungo la rotta d’una dinamica che poteva abbracciare i pianissimi più tenui e i fortissimi più intensi senza distorsioni di suono e con un senso del ritmo e una capacità e una tempestività di interventi, negli imprevisti del palcoscenico o della buca, attuati con la massima semplicità.
Il libro di Rino Alessi, pubblicato dalla casa editrice friulana L’ Orto della Cultura, costituisce un omaggio assai ben riuscito a questa importante figura troppo a lungo trascurata dal mondo musicale italiano, al contrario di quanto avviene all’ estero dove l’ arte direttoriale di Giuseppe Patanè viene tuttora ricordata adeguatamente all’ importanza del suo lavoro. La parte biografica è affidata al racconto di Francesca Patanè, figlia del Maestro e soprano di buona rinomanza internazionale, che traccia un ricordo assai vivo e convolgente della personalità del musicista napoletano. Seguono alcune testimonianze di artisti che hanno lavorato con Patanè come la grandissima Magda Olivero, Mara Zampieri, Ferruccio Furlanetto, Bonaldo Giaiotti, i direttori d’ orchestra Maurizio Arena e Pier Giorgio Morandi, che iniziò la carriera come assistente del Maestro, il violinista Salvatore Accardo e il regista Giorgio Pressburger. il libro prosegue poi con un’ analisi di alcune interpretazioni di Patanè, una discografia commentata e l’ elenco completo delle 2146 recite dirette fino al 1988, redatto personalmente dal musicista e conservato nell’ archivio di famiglia insieme alle partiture e ad altri documenti sulla cui importanza la figlia Francesca si sofferma nel racconto biografico. Un libro organizzato assai bene, scritto in maniera scorrevole e nel complesso senz’ altro molto interessante, la cui lettura mi sento di raccomandare a tutti gli appassionati di storia del teatro d’ opera.