“Perché se lo merita”?
di Marco Cagnotti
La ragazza è stata assassinata e poi violentata (in quest’ordine). Lo zio confessa il delitto. Si scatenano le reazioni. Prevedibili e di pancia. Su Facebook si apre il gruppo “Lasciate lo zio di Sarah alla folla” (inutile cercarlo: adesso non c’è già più). Le opinioni spaziano dalla pena di morte al linciaggio, fino alla tortura, all’evirazione e alla sodomizzazione.
Inorriditi da tanta furia popolare, altri ricordano che viviamo pur sempre in uno Stato di diritto e che perciò bisogna “fare giustizia”. Ma che cos’è la giustizia? Affrontiamo il problema in maniera razionale, andiamo alle origini di tutto e facciamo un passo indietro.
Un passo molto lungo. Fino nella Preistoria. Una ragazza viene rapita, stuprata e uccisa. I genitori e alcuni membri del suo clan catturano l’assassino e lo linciano. Fine della vicenda. E’ giustizia, questa? No, è vendetta. Che non è (oggi lo sappiamo) una bella soluzione. Anzitutto è in balìa dell’arbitrio del singolo, che può imporre una punizione sproporzionata. Magari la morte per il furto di una mela. E poi la vendetta è irrazionale. La ragazza viene forse risuscitata dalla morte del proprio assassino? No di certo. La vendetta risponde solo a una pulsione primordiale e irrazionale degli esseri umani. Se il colpevole la passa liscia, chi osserva, specie se è stato toccato in prima persona, in qualche modo percepisce un rimescolamento interiore delle budella. E’ questo rimescolamento che spiega l’invocazione della morte e perfino della tortura per lo zio di Sarah Scazzi. Roba che neanche i Neanderthal.
Adesso compiamo un bel salto temporale e arriviamo a Hammurabi, creatore nel XVIII secolo a.C. del primo codice di diritto penale, civile e commerciale. Equo, per la verità, anche se oggi lo si ricorda come “legge del taglione”. Certo migliore dell’arbitrio soggettivo della vendetta. E’ la prima legge, elementare e rozza ma efficace. Oggi avremmo qualche difficoltà nel riconoscere la correttezza di quei processi, ma nel codice di Hammurabi c’è un embrione di giustizia.
Il primo embrione di giustizia. (Cortesia: Louvre/Jastrow)
Ultimo salto temporale: quasi 40 secoli. Oggi. Il tribunale nel quale si decide il destino dell’assassino della ragazza. Si applicano codici ponderosi e complessi. Lo scopo è sempre lo stesso: applicare la giustizia. Alla fine l’assassino subirà una pena. Di solito il carcere. Nei Paesi più incivili la morte. Manteniamo ora un approccio razionale e chiediamoci: “Perché quella pena?”.
La pena comminata al colpevole di un delitto ha tre scopi.
- Anzitutto la società deve difendere sé stessa. Siccome è un rischio lasciare a piede libero un individuo potenzialmente ancora pericoloso, è necessario renderlo innocuo. Magari rinchiudendolo in un edificio, la prigione, dove sia controllato e reso incapace di danneggiare gli altri. Oppure sopprimendolo fisicamente: una soluzione senza dubbio efficace per quanto riguarda la difesa della società.
- Poi c’è la deterrenza. Non ci si può aspettare che tutti i membri della società aderiscano ai più alti valori morali. Alcuni potrebbero essere tentati di commettere reati contro le persone e la proprietà. Come scoraggiarli? Spaventandoli con lo spauracchio della pena: “Se rubi, ti becchi la galera. Se ammazzi, finisci sulla sedia elettrica”. (E la pena di morte, sia detto per inciso, non rappresenta un deterrente particolarmente efficace.)
- Da ultimo, il recupero: il condannato dev’essere posto in condizione di riflettere sulle proprie responsabilità, di comprendere i propri errori, di trarne le conseguenze e di iniziare un’esistenza nuova e migliore, dopo essere stato reinserito nel corpo sociale. (E la pena di morte, sia detto sempre per inciso, esclude ovviamente qualsiasi possibilità di recupero.)
E poi?
E poi basta. La pena, sia essa la prigione o la morte, non ha altro scopo. Non permette al colpevole di tornare indietro. Non gli consente di espiare alcunché. Non risarcisce la vittima. Non la riporta in vita, se è stata uccisa. Magari soddisfa le pulsioni primordiali e i contorcimenti di budella dei parenti. Ma, al di fuori dell’autodifesa della società, della deterrenza e del recupero, una pena non ha alcun altro scopo razionale. Insomma, se per assurdo ci fosse la garanzia assoluta di assenza di recidiva e di nessuna imitazione, un colpevole dovrebbe… beh, sì, dovrebbe essere lasciato libero.
La risposta “Perché se lo merita”, che aleggia nella mente di chi invoca la “giustizia”, in realtà la interpreta solo come una “vendetta di Stato”. Né più, né meno. Ed è una stronzata.