Il Comando Centrale (abbreviazione CENTCOM), il settore della Difesa americana che gestisce i teatri di guerra ad est dell’Egitto e fino all’Afghanistan, ha diffuso una tabella che riporta un conteggio dettagliato degli attacchi compiuti finora su Iraq e Siria.
Rispettivamente il numero è di 266 e 95 – ufficiale, al momento della stesura di questo pezzo, dunque senza il conteggio di quelli odierni – per un totale dunque di 361: da non confondere che il valore di oltre 1700 (1768), che indica invece il numero di “uscite” in totale – dunque raid, ma anche missioni di ricognizione, perlustrazione e rifornimento.
Leggendo i dati, si nota subito un errore che sembra di forma, ma in realtà può avere anche una lettura laterale: nell’elenco che ricapitola i vari airstrike per località, “Kobani” e “Ayn al-Arab” sono indicate separatamente, quando invece è noto a tutti che si tratta della stessa località – chiamata indistintamente con il nome curdo, il primo, o con quello arabo, il secondo. Charles Lister, ricercatore del Brookings Doha Center e uno dei massimi esperti mondiali dello Stato Islamico, ha definito su Twitter «deeply concerning» l’errore di CENTCOM. E di fatto, andando oltre la questione di forma, l’inserimento del doppio nominativo per indicare la stessa località può essere un segno “profondamente preoccupante” sulla superficialità nascosta dietro all’approccio americano alla “questione-Kobane”. In barba al quanto sia invece importante impedire la presa della città da parte del Califfo, secondo la gran parte degli analisti.
Il dato ancora più preoccupante si estrapola leggendoli quei numeri: ammesso che il valore che segue “Kobane” e quello che segue “Ayn al-Arab” siano cumulabili per l’errore, e sommando anche quello che indica “Kobani Border Crossing”, si arriva ad un totale di 13 raid aerei. Considerando che la città al confine turco-siriano è sotto assedio da tre settimane, non servono funzioni integrali per capire che è stato condotto meno di un bombardamento al giorno.
Sull’”abbandono” di Kobane ci sono stare molte polemiche che hanno coinvolto governi, analisti e opinione pubblica in tutto il mondo. Polemiche sfociate in proteste negli aeroporti europei di Londra o Colonia, o per le strade di Vienna e di alcune città svizzere, e pure in Turchia, Nella mattinata odierna, una manifestazione di curdi che vivono in Olanda, ha forzato le porte del parlamento all’Aja, chiedendo all’Occidente di “fare di più” per fermare l’IS nella città curdo-siriana – per la cronaca va segnalata la coincidenza con il primo attacco aereo condotto dagli F-16 olandesi su alcuni veicoli armati dello Stato Islamico in Iraq.
In queste ultime ore, i report dal campo stanno ricostruendo, però, un incremento degli attacchi: già nella notte appena trascorsa erano stati segnalati raid (5, secondo i dati ufficiali americani), continuati nella prima parte della mattinata, sulle zone sud e orientali della città – hanno colpito, finora, 1 tank, 4 pick-up armati e un nucleo di combattenti dell’IS.
Il rischio è che questo estremo, e più corposo, tentativo di soccorso alle milizie curde che stanno combattendo i soldati del Califfo, arrivi troppo tardi.
Il presidente turco Erdogan, parte in causa perché fin qui si è impegnato soltanto nel tenere la battaglia fuori dal proprio territorio, ha poco fa sentenziato che «Kobane sta per cadere», sostenendo la necessità di un’azione via terra.
Il punto cruciale è sul chi “dovrebbe” mettere quegli stivali sul campo di battaglia in questo momento. E su questo Erdogan non si è espresso.