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L’Isis negli ultimi mesi ha fomentato azioni individuali come quelle condotte in Francia o in Australia; ciò non vuol dire che le abbia dirette o realizzate. I terroristi che hanno operato in Francia hanno fatto riferimento tanta ad Al Qaida quanto all’Isis, giustamente qualche commentatore ha ipotizzato che in ambito locale le varie ispirazioni abbiano trovato delle intese. Per quanto mi riguarda l’impressione che ho ricevuto è che, essendo appunto “terrorismo molecolare”, ci sia un altissimo rischio di strumentalizzazione di queste folli azioni da parte di poteri, per così dire “occulti”, per scopi altri rispetto, se mi si lascia passare il termine, la ragione ideale che spinge questi terroristi ad agire. Azioni e “ideali” comunque deprecabili e da condannare. Per combattere il terrorismo islamico una delle prime cose sulle quali si è ragionato, almeno hanno ragionato i Ministri degli interni dei Paesi UE di concerto con il rappresentante degli Usa, ha riguardato l’introduzione di controlli come quelli adottati dagli Usa subito dopo l’11 settembre. Molti commentatori hanno posto all’opinione pubblica la fatidica domanda tra sicurezza e riduzione della tutela della privacy cosa si sceglie? Da un’opinione pubblica frastornata e intimidita la risposta è abbastanza ovvia: la sicurezza. I servizi britannici e statunitensi addetti all’intelligence hanno rincarato la dose sostenendo che il prossimo Paese ad essere attaccato sarà l’Italia, nello specifico Roma e addirittura la Santa Sede. C’è da dire che tanto il Governo Italiano quanto la Santa Sede hanno subito ridimensionato l’allarme. Ricordo in primo luogo a me stesso come entrambi i Servizi crearono artatamente le prove che portarono alla Seconda Guerra del Golfo, prove rivelatesi poi totalmente false e infondate. Se questo è il quadro, risulta davvero poco rassicurante non solo per le potenziali azioni terroristiche ma anche perché sono numerosi i dubbi e le perplessità che sorgono se si ascoltano le notizie diffuse dai media con la testa e non con la pancia. Alle dichiarazioni di Minniti si aggiungono una serie di fatti internazionali di carattere politico ed economico che, per molti versi, possono essere interpretati come causali rispetto alle azioni terroristiche. E’ da qualche mese che assistiamo al crollo del prezzo del petrolio. Le cause di tale calo che sta producendo più di qualche problema a un sistema economico già in crisi. Il crollo del prezzo del petrolio è dovuto alla concorrenza che i Paesi produttori di petrolio del Medio Oriente fanno all’industria dello Shale Gas statunitense. Gli Usa sono diventati autonomi grazie allo sfruttamento dello shale gas. Lo sfruttamento di questa risorse, però, risulta conveniente solo se il prezzo del petrolio supera sensibilmente i 100$ al barile, diversamente diventa antieconomico e causa fallimenti a catena delle imprese impegnate nel settore e delle banche che in questi anni si sono esposte finanziandole. La soluzione per tornare a far crescere il prezzo del petrolio: Arabia Saudita, Qatar, Kuwait dovrebbero ridurre la loro produzione oppure bisogna aumentare la domanda con interventi economici e finanziari non convenzionali: per esempio la guerra in Medio Oriente. Come è noto le fonti di finanziamento dell’Isis sono fondamentalmente due: i giacimenti di petrolio di Kirkuk nel nord dell’Iraq occupato dal Califfato e le rimesse finanziarie all’estremismo Islamico da parte del Qatar e dell’Arabia Saudita. Anche in questo secondo caso le risorse finanziarie provengono dal commercio del petrolio. Sull’onda dello sdegno, della paura, della pressione dei movimenti politici nazionalpopulisti europei una guerra al Califfato sarebbe ampiamente giustificata e sostenuta dall’opinione pubblica occidentale. Gli effetti positivi di una guerra generalizzata in Medio Oriente sarebbero diversi per l’industria petrolifera dello Shale Gas e per il sistema bancario che ha investito in quel settore. In primo luogo l’attacco al Califfato bloccherebbe la commercializzazione del petrolio prodotto a Kirkuk contribuendo a far aumentare il prezzo del barile; ma un conflitto comporta l’impegno di risorse perciò, contestualmente, porterebbe ad un aumento della domanda di petrolio. Inoltre Arabia Saudita e Qatar sarebbero costrette a riposizionarsi rispetto all’Integralismo Islamico. Il conflitto dopo la fase di distruzione apre occasioni per investimenti. In ultimo cosa non secondaria per gli equilibri mediorientali lo Stato di Israele coglierebbe l’occasione per tentare di bloccare il processo di riconoscimento internazionale dello Stato Palestinese.La mia riflessione è fantapolitica? Forse! Ma la domanda la ripropongo: Cui Prodest?
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