Dopo il romanzo Una terra spaccata (Edizioni San Paolo, 2010), dove si narrava magistralmente, senza retorica e senza cedimenti emotivi, una Napoli traviata, venduta e comprata in spirito e in corpo, ma nemmeno si rinunciava a ricordare che persino tra le rovine morali e materiali c’è sempre spazio per coltivare amore e amicizia, Emilia Bersabea Cirillo torna con questa raccolta di racconti, Gli incendi del tempo (Et Al./Edizioni, 2013) a declinare uno dei suoi temi prediletti: la solitudine e la differenza come esclusione, scarto, margine e allo stesso tempo privilegio. Una sorta di canzoniere in prosa che si nutre di vuoti, trasporti, nostalgie, alla riscoperta dell’ordinario come forma unica e universale in cui l’uomo può finalmente ritrovare se stesso, mentre la realtà con le sue asperità sorregge e infrange, opprime e consola gli animi rimasti nudi.
Sette racconti montati in dissolvenza, così da riportare il frammento all’unità di un romanzo ideale, capace di trasmettere al lettore un certo stupore, lo stupore provocato da gesti, inciampi del destino che generano mutamenti e legami provvisori tra simboli ossimorici (il fuoco, l’acqua), sospensioni di un mondo spogliato, inaccessibile nella sua incoerenza e disarmonia. Ogni racconto è concepito secondo una sua architettura delicata ma non fragile, che agisce non solo al livello del linguaggio narrativo, ma riconcettualizza completamente il repertorio dei personaggi e delle situazioni raccontate (l’incontro con un ex terrorista in libertà provvisoria; l’emigrante e l’emigrato schiacciati e degradati da lavori avvilenti…); intimi sfoghi e intimi moti vibranti, violenti come gli incendi del tempo, suggestiva metafora che scuote, sconvolge e risveglia dalla paralisi di un’esistenza intontita, come morta: una fenice che rinasce dalle sue ceneri, ma perché ci sia cenere è necessario che ci sia fuoco. Lo sfondo è un Sud mitico e lirico insieme, paesaggio metafisico e palpitante, geografia globale dell’animo umano colmo di contraddizioni, desideri, malinconie, valenze paniche e tensioni all’infinito, immerso in una luce scrosciante e impetuosa, abbagliante e rivelatrice.
Un incontro particolarmente fecondo è quello che ricorda il compositore Luigi Noto in uno dei racconti più affascinanti e coinvolgenti, Gli infiniti possibili, tutto costruito su una diegesi ellittica intrecciata al ritmo e alla melodiosità, capaci di permeare il linguaggio di significati inattesi, un impiego contrappuntistico tra parola e immagine, generativo di un’ulteriore e insospettabile plasticità semantica: èla musica a riportare armonia anche nelle più desolate terre, tra le macerie del cuore e della memoria, per decifrare stati d’animo complessi, piegati e piagati dal tempo, dall’assenza, da chi se n’è andato, da un vissuto che si vorrebbe allontanare, scacciare come una zanzara fastidiosa ed assordante e che invece danza sempre tutt’attorno, pronta a pungere e a far male.
È dunque il dolore l’altro tessuto connettivo della raccolta. Dolore inespresso, dolore occulto, dolore sommerso, ma mai rappresentazione drammatica, perché ogni volta riportato alla dimensione privata del personaggio: c’è qualcosa di sacro, quasi inviolabile, nella debolezza di questo anello che non tiene e squarcia il velo con cui i protagonisti tentano invano di proteggersi, scoprendo invece le proprie cicatrici, quasi mai rimarginate.
E forse è proprio in questo senso di dignità, di rispetto dell’uomo e del suo male di vivere che risiede la vera cifra narrativa del libro della Cirillo, stilisticamente ripresa e riflessa in una prosa potente, preziosa, icastica, sapientemente dosata a toni più semplici e piani, specie nei dialoghi. Perciò è con un senso di vertigine lieve, quasi in punta di dita, che il lettore sfoglia le pagine, attento a non disturbare l’equilibrio transitorio delle vite concesse ai suoi occhi, alle storie esibite con compostezza e contemporaneamente con fierezza dalla penna nobile e autentica dell’autrice. «Il tempo si ammonticchia nelle nostre vite come neve. Noi siamo pronti a spalarla, lei a cadere. Ogni tanto fa bene controllare a che punto siamo».
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