
Gli infedeli è il frutto del sudore della stempiatura di un solo uomo, il fenomeno d'oltralpe Jean Dujardin, neo-oscarizzato (e globizzato, impalmato, baftizzato) per la sua straordinaria interpretazione in The Artist, storia di un umile ma determinato ragazzo della sterminata provincia francese (leggi tutto ciò che sta intorno a Parigi), asceso dai reality show alle commedie strappa-applausi, passando per le sit-com stile Love Bugs, fino alla favola del film muto e in bianco e nero su cui nessuno volle scommettere che alla fine volò alla conquista di Hollywood, complice un re Mida travestito da produttore in grado di spalancargli le porte della Mecca del cinema (leggi Harvey Weinstein, il fondatore della Miramax, colui che tutto ciò che tocca diventa premio, colui che tutto può, anche portare in trionfo agli Academy Award Shakespeare in love sbaragliando la concorrenza di colossi come Salvate il soldato Ryan di Spielberg e La sottile linea rossa di Malick).

Primo problema: la scrittura, o piuttosto la sua assenza. Gli sketch nostrani di un tempo, anche quelli più brevi, traboccavano di irresistibili freddure. Quelli degli Infedeli obbediscono alla legge del minimo sforzo-massimo incasso, con la colpevole complicità di un pubblico ormai assuefatto all'insostenibile oscenità dell'etere. Detto altrimenti: non si ride abbastanza. E anche laddove si ride, come nei tre brevissimi frammenti diretti da Alexandre Courtes, è in fondo un umorismo da barzelletta al bar, da consumarsi istantaneamente assieme al caffè: “allora, c'è questo tizio che viene colto in flagrante dalla moglie e...”.
Secondo problema: la scrittura. Il film non sa trovare una sua direzione, impegnato com'è a cercare di tenere un piede nella comicità goliardica e audace, e l'altro sul terreno, piuttosto scivoloso a dirla tutta, della commedia d'autore che vuol far riflettere attraverso il sorriso. Il risultato è un'accozzaglia di toni disomogenei, realistici, faceti, drammatici persino, senza un ritmo narrativo riconoscibile. Ci sono i seduttori professionisti immortalati da un'estetica ultrapop, quasi pubblicitaria. C'è l'adultero sfigato del grigissimo episodio firmato Hazanavicius (il migliore a mio parere) o il distinto signore che va a letto con la poco più che maggiorenne di turno.
In questa variegata carrellata di traditori, gli autori si pongono certamente delle domande, ad esempio perché gli uomini siano infedeli. E si danno delle pessime risposte, pregne di misoginia e moralismo. Le mogli cornute rivestono immancabilmente il ruolo ingrato di custodi di una presunta normalità coniugale, nella quale l'adulterio non è che il sintomo di una ninfomania compulsiva, spesso triste e annoiata, che trova sfogo di volta in volta sui corpi di pin-up a pagamento, ammiccanti lolite o prostitute un po' attempate. Una patologia dalla quale gli angeli del focolare sembrano pressoché immuni. E se le donne fanno la figura, alternativamente, di silenzioso oggetto sessuale e di grillo parlante rompicoglioni, è l'uomo ad avere la peggio. Immaturo, maschilista, malato, pronto a tutto pur di mettere a segno una notte di trasgressione, persino a provarci con la collega racchia (Isabelle Nanty). L'infedele qui è davvero un mostro. Troppi elementi importanti sono stati tralasciati: mai una volta che qualche personaggio provi un vago senso di colpa, mai una volta che si intraveda un pizzico di passione nell'atto del tradimento, al di là dell'insopprimibile istinto del maschio fornicatore.


Al Dujardin che vorrebbe essere il nuovo Vittorio Gassman di Francia farebbe bene ascoltare ciò che un monumento vivente come Robert De Niro un giorno disse a proposito del mestiere dell'attore: “the talent is in the choises”, il talento è nelle scelte. Speriamo che questi Infedeli non si trasformino nella prima cattiva scelta di un talento sprecato.