di Giuseppe Casarrubea
La crisi della sinistra e l’approccio critico proposto da uno degli ultimi epigoni della lotta comunista al nazifascismo: un siciliano con la testa di un genovese che non si rassegna alla scomparsa o alla crisi dei valori per i quali si è battuto per tutta la vita: la libertà dall’oppressione, la Carta Costituzionale, il diritto al lavoro, l’uguaglianza dei cittadini, la difesa dei più umili.
Ha gli occhi azzurri ed è l’esatto opposto di Berlusconi: il Polo Nord, l’azimut di una possibile nuova sinistra. Di tale opposizione è prova tutta la sua vita nella quale, naturalmente, il nostro capo del governo non poteva entrare, neanche da lontano. Più che negli scritti il suo insegnamento è nella coerenza della sua coscienza, nella linearità della sua azione politica.
Si chiama Emanuele Conti, Elì per i parenti e gli amici più stretti. E’ nato a Messina nel 1921. Il suo assillo è la crisi della sinistra, la valanga che l’ha investita non per la caduta del muro di Berlino, per la politica di Gorbaciov, per il crollo dell’Urss, accelerato da Eltsin, ma perchè quello che era stato il Pci di Berlinguer, non esiste più. E’ stato rimosso, cancellato. Era proprio necessario buttare tutto? Elì non ha sognato, non si è svegliato improvvisamente da un incubo. Ha combattuto realmente, ha rischiato, anche quando il linguaggio era quello delle armi, quando bisognava essere partigiani per cacciare via lo straniero invasore. Perciò non si rassegna, neanche ora che ha novant’anni e si vede trascinato nel vortice di una trasformazione innaturale, in un gioco in cui le carte sono state cambiate e il linguaggio non è più quello della chiarezza.Lo smarrimento risale alla fine degli anni ’80 del secolo scorso, quando anche il codice genetico dei partiti, e non solo del Pci, comincia a mutare spingendo i comunisti prima nelle braccia della socialdemocrazia europea e dopo in un partito di tipo retorico-estetico. L’annuncio lo dà Achille Occhetto durante la cosiddetta “svolta della Bolognina” (un quartiere di Bologna), quando il 12 novembre 1989, tre giorni dopo la caduta del muro di Berlino, comunica ai partigiani che commemorano lo scontro del 1944 tra diciassette gappisti e novecento nazifascisti, che il Pci cambia nome, cognome e indirizzo e si trasferisce in una “cosa” che sarà denominata Pds. Il ventesimo e ultimo congresso tenutosi a Rimini il 31 gennaio 1991, fa il resto.
Scrive Conti nella sua autobiografia: “Dopo Rimini non ho aderito a nessuna organizzazione politica e partitica né unitaria né scissionista e questa mia non adesione è stata una precisa assunzione di un punto di osservazione non neutrale, ma espressione di un estremo slancio morale, di un’attesa che, dagli anni Novanta a oggi, ha coinciso con questo periodo di ricerca di una via più definita per la sinistra in Italia.Oggi, dopo la mutazione dal Pds ai Ds e, infine alla più recente nascita del Pd, le prospettive politiche restano ancora incerte”.
E’ la ricerca di coordinate perdute: il materialismo storico, il laicismo, il marxismo come metodo di analisi del mondo, ecc.
Rimane, però, occorre dire, un sistema che conduce ad una sola stella polare: la difesa della Costituzione, la laicità dello Stato, l’autonomia di quest’ultimo dai condizionamenti del Vaticano. Ma quale senso dare a questi grandi valori se manca la piattaforma da cui prendere la rincorsa per appropriarsene? Denominatori che Conti enuclea come condizioni di prospettiva. Trovano ragioni nella sua biografia e nella stessa storia del nostro Paese: “La rivisitazione del passato, la memoria degli avvenimenti, ma anche l’aspra criticità aiutano a capire il presente e a essere profetici quel tanto che basta ad avere un’idea di futuro ed è per questo che vivendo questi tempi voglio tornare ai primi anni del dopoguerra e continuare a riflettere sulla storia della Sicilia nella convinzione che in quel periodo risiede la chiave di lettura del presente”.
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rudere di Elì (Filicudi)
Elì non aspetta affatto la “svolta della Bolognina” per mettersi in ritiro spirituale. Lo è già da tempo. Non ha mai avuto un rapporto tranquillo con le gerarchie del suo partito. Ripeto: il suo è uno stile di vita che coniuga azione e riflessione; prescinde, quindi, dalla mera contingenza politica. Nel 1968, anno di grandi sommovimenti sociali nel mondo, acquista un rudere a Bazzina nell’isola di Filicudi, la più sperduta delle Eolie. Lo ricostruisce con le sue mani e ogni anno vi trascorre almeno due mesi in totale solitudine. In alcuni anni l’isolamento arriva anche a sette. Non è la vocazione mistica di un comunista militante. E’ il bisogno di recuperare la dimensione del silenzio come valore. Per capire, per agire, per temprarsi nel corpo e nello spirito. Certamente perchè la militanza, con le sue contraddizioni, le sue fatiche, i suoi giochi ha bisogno sempre di coniugarsi con la dimensione del sè, col proprio diritto a riflettere.
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La sera che lo incontro lo trovo seduto al tavolo dei relatori chiamati a presentare, al Circolo Pickwick di Messina, il suo libro Giobbe della politica, curato da Michela D’Angelo e uscito lo scorso anno per i tipi della GBM, nella collana diretta da Santi Fedele. E’ un distinto signore segaligno, asciutto, deciso, alto e ben vestito. Sono soprattutto i suoi occhi che hanno preso nel tempo il colore del mare a sorprendere. Occhi sereni di un novantenne che avverte di non avere ancora vissuto il tempo in cui deve continuare a raccontare, approfondire le ragioni di una vita e di una storia. Che non è solo sua. E’ la storia d’Italia, per quanto lui umilmente la limiti alla sola Sicilia.
Indossa un abito blu scuro ed ha attorno una moglie, molto più giovane di lui che lo guarda con ammirazione, come una ragazza guarda il suo boyfriend. Per lui l’età cronologica non corrisponde con quella mentale. Al contrario ha mente spigliata, capacità di riflessione critica rara, intuizioni creative. Era e continua ad essere un combattente. Di lui, confesso, non avevo mai sentito parlare, né avevo mai letto qualcosa. In Facebook non c’è traccia, anche se ha alcuni omonimi. Comunque credo che non condividerebbe i fan e le scuderie e, per ultimi, quelli che si riempiono il petto di falci e martelli, stelle rosse e simboli del “Che”, bandiere e mostrine o galloni che siano.
falce martello e .... (da foto bacheca di Francesco Esposito)
Tanto più che oggi delle falci e martello si fa un uso estetico. Sono diventati non i nuovi simboli di una storia reinterpretata, ma aspetti di desideri consumistici, forme dei nuovi linguaggi, massmediali, appunto, frutto delle nuove mode estetizzanti. In questo senso l’uso è disparato: c’è chi li mette tra il proprio nome e cognome e chi invece a livello degli organi sessuali. L’effetto è folcloristico: dànno al variegatissimo popolo progressista i caratteri propri delle danze macabre, prima del compimento di certi riti più o meno tribali. Un segno della più generale decomposizione dei valori tradizionali, propri della sinistra. Sarà forse un processo necessario visto che, secondo la visione cristiana del mondo, tutto deve prima marcire se vuole poi nascere a nuova vita. Può darsi che ciò sia un bene ma non si intravede segnale di luce dentro l’interminabile tunnel del riduzionismo individualistico.
Il senso che si prova è di disfacimento, di un andare a zonzo, di mettersi addosso un talismano o tentare di far sentire di sè, o del proprio gruppo, per quanto vasto possa essere, l’odore di un sottile profumo. Questo senso olfattivo non è dovuto solo alla frantumazione delle ideologie e dei partiti, così come ci sono pervenuti dalla nostra storia, con le loro caratteristiche e funzioni, ma anche al fatto che tutto questo mondo in fermento fa parte di una coreografia unitaria. Oggi l’estetica edonistica ha preso il sopravvento sulla politica e non mi stupisce affatto che trionfi Berlusconi.
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Il mondo virtuale e di plastica è il suo regno. Siamo sotto il dominio mediatico. Se ti fai un giro per Facebook, ad esempio, provi l’impressione che ci sia un vasto popolo di centro-sinistra e – addirittura – una buona presenza comunista. Sigle e gruppi di ispirazione ecologista e, come si dice, riformista, abbondano. Ciò è un bene, a due condizioni, però: che i loro programmi siano corrispondenti ai comportamenti reali; che tutti intendano più o meno la stessa cosa quando si scambiano le informazioni. Ma non è così.
Dopo l’’89 è successo lo scioglimento dei ghiacciai e tutte le valanghe che si sono determinate hanno riempito, a valle, una grande conca. Tutto è scomparso del precedente paesaggio e la nuova realtà sono i nuovi caratteri gliaciali di questa depressione.
Il palcoscenico non è occupato più da cavalli di razza. Qualche volta l’attraversano anche alcuni decerebrati il cui potere deriva dall’uso spregiudicato dei mezzi in loro possesso. Opportunità costruite nel tempo, oggi abnormi, parossistiche, ma tuttavia pur esse utili e necessarie allo standard di sopportazione.
Amo il teatro, anche se, dovendo scegliere cosa fare nella vita, beneficio di rare possibilità di frequentarlo. Odio, però, quegli spettacoli, soprattutto televisivi che procedono per simboli. Hanno bisogno cioè di identificare i loro referenti di modo che siano chiamati sempre a recitare la parte. A maggior ragione odio il tipo di attori che, o per interessi o per narcisismo, sono gli habitué dei palcoscenici o la tappezzeria degli applausi. E, anche in questo caso, meno male che ci sono, perchè altrimenti veramente ci sarebbe da mettersi a gridare a causa del vuoto assoluto.
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Per fortuna ci sono le eccezioni alle regole e una di queste, la più recente, è proprio Elì, anche se nessuno lo conosce.
E’ una rara figura di siciliano, cresciuto ad una scuola familiare del Nord Italia. Il padre, Costante, ingegnere civile di Sant’Olcese (Genova), appena laureato è assunto col compito di contribuire alla ricostruzione della città dello stretto devastata dal terremoto del 1908. La madre, Ernesta Ventura di Monzuno, è una bellissima donna vissuta da sempre a Bologna. I due si conoscono nella capitale emiliana e nasce un amore che segna per sempre il loro destino e quello dei loro figli. E’ una storia rovesciata con il suo esordio in quella catastrofe che cambiò la vita di milioni di persone. Erano già cominciate le ondate migratorie dal Sud verso il Nord e i Paesi d’Oltralpe e d’Oltreoceano, ma la vicenda dei Conti va in direzione esattamente opposta: ha il suo obiettivo proprio nelle popolazioni terremotate.
Elì frequenta prima una scuola di gesuiti, poi il liceo classico statale e quindi la facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Messina. Nel giugno 1940, dopo la tragica e personale decisione di Mussolini di dichiarare l’ingresso dell’Italia nel secondo conflitto mondiale, le sorti della famiglia Conti, come quelle di tutti gli italiani subiscono un brusco e traumatico rovesciamento. Elì fa prima il capitano di vascello nel 1941 e, dopo l’8 settembre ’43, il partigiano. Ruota attorno ai Gruppi di azione patriottica (Gap) che liberano Roma dal nazifascismo. Conosce Franco Ferri che il 23 marzo ’44 compie l’attentato di via Rasella contro i nazisti.
Carlo Lizzani
E’ nella stessa area delle azioni gappiste alle quali partecipano intellettuali come Carlo Lizzani, Renato Guttuso, Luigi Pintor e tanti altri. Ferri lo arruola come aiutante e in tale veste Conti partecipa a numerosi attentati contro i fascisti “particolarmente compromessi con i nazisti e coinvolti nel funzionamento della famigerata prigione delle SS di via Tasso a Roma”. Insomma, a poco più di vent’anni è un combattente che si muove tra libri e moschetti. Già a quell’età legge, infatti, Labriola, Marx, Engels, Lenin e li applica in quella Roma ancora dominata da Priebke e Kappler.
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gruppi di azione patriottica (1944)
Dopo la Liberazione della capitale (4 giugno 1944) rientra nella sua città natale. Qui trasferisce la sua esperienza di partigiano nelle lotte per l’affrancamento dei contadini dalla servitù feudale, si batte per l’attuazione delle leggi di riforma agraria del ministro dell’agricoltura comunista Fausto Gullo. Contrasta la forte reazione padronale e conosce anche la galera. E’ un comunista militante, un dirigente politico e sindacale nel Pci di Gramsci, Togliatti, Terracini, Longo e Berlinguer. Con i capi del Pci, Togliatti e Li Causi, ha una frequenza strettissima. Il risultato delle sue battaglie è la rottura del blocco agrario. Costa lutti e sangue. La storia del gruppo dirigente di queste lotte per quanto riguarda il messinese è già stata tracciata da Daniele Pompeiano e Giovanni Raffaele e s’inquadra nell’organizzazione del Pci prima ancora del 25 aprile 1945. E’ nel 1944 che nascono le federazioni comuniste del messinese mentre nell’anno successivo sorge la federazione regionale guidata da Li Causi.
E’ una storia personale e collettiva che giunge fino all’assassinio di Salvatore Carnevale a Sciara (1955), all’eliminazione dei sindacalisti dei Nebrodi uccisi dalla mafia tra il 1956 e il 1967. Il più noto è Carmelo Battaglia, eliminato il 24 marzo 1966 mentre si reca in un feudo acquistato dalla baronessa Lipari da parte di una cooperativa di pastori per il pascolo del bestiame.
Il ventennio che precede l’uccisione del sindacalista di Tusa ha il suo esordio tra la fine del 1946 e l’intero anno 1947. E’ l’inizio del tempo lungo dello stragismo, della nuova strategia di Cosa Nostra che ora ha un capo potente: Salvatore Lucania, alias Lucky Luciano. E’ lui il capostipite dei ras della mattanza. Nel dicembre 1946 è assassinato Nicolò Azoti, segretario della Camera del Lavoro di Baucina, qualche mese prima era saltata in area la sede della Federterra: due morti. Ai primi di gennaio ‘47 tocca ad Accursio Miraglia. Il 7 marzo è la strage di Messina. La Camera del Lavoro di Umberto Fiore, Francesco Sardo, Elì Conti e Pancrazio De Pasquale indice uno sciopero generale. I Carabinieri sparano sulla folla. Muoiono Giuseppe Maiorana, Biagio Pellegrino, Giuseppe Lo Vecchio. Dietro le quinte la repressione è appoggiata dall’Uomo qualunque, il partito filoamericano di Guglielmo Giannini, intrecciato con i vecchi gerarchi fascisti del ventennio nero. Elì scrive, con lucida puntualità: “La strage del 7 marzo a Messina va inserita nel contesto regionale che portò a quella del primo maggio 1947 a Portella della Ginestra”.
Dunque il terrorismo a Messina ha gli stessi obiettivi di quelli assunti dalla banda neofascista di Salvatore Giuliano e Salvatore Ferreri, alias Fra’ Diavolo, contro le manifestazioni democratiche dei lavoratori. Un’azione di contenimento attraverso una guerra dichiarata al comunismo.
Elì ne è testimone diretto: “Una sera, all’imbrunire, mentre camminavamo in via Libertà diretti verso piazza Politeama, dai rami di uno degli alberi, allora meno alti di adesso, scese un uomo, il quale consegnò a Li Causi un messaggio da parte di Salvatore Giuliano. Il messaggio diceva che il movimento separatista di Giuliano non si sarebbe fermato e che avrebbe distrutto i comunisti”. Così dopo Messina abbiamo Portella, gli assalti contro le Camere del Lavoro del 22 giugno, l’uccisione di Giuseppe Maniaci e di altri dirigenti fino alla vigilia delle elezioni politiche del 18 aprile ’48, quando stravince la Dc di De Gasperi: Epifanio Li Puma, Calogero Cangelosi e Placido Rizzotto, per continuare, dall’anno successivo, con la strage di Melissa (29 ottobre 1949), quando la polizia di Scelba, more solito, spara sulla folla e uccide tre contadini, ferendone alcune decine.
Il giovane Andrea Camilleri a sx, Galvano della Volpe (penultimo) accanto a Sibilla Aleramo a dx
Che sia il terrorismo politico a manovrare mafia e banditismo è ormai scontato. Elì, non è l’ultimo arrivato. Lo nota quell’eretico caposcuola che fu a Messina Galvano della Volpe, docente di storia della filosofia, ma anche un sorvegliato speciale della nomenclatura, autore di importanti volumi come “Critica del gusto”, “La libertà comunista”, “Rousseau e Marx”. Sa quanto grande sia la pazienza di dirigenti come lui o il suo amico Pancrazio De Pasquale. Li definisce entrambi “Giobbe”, secondo la nozione biblica della pazienza e dell’accettazione del sacrificio come obbedienza a una sorta di volontà divina. E’ in realtà un comunista senza tessere, un irriducibile della politica, un libero pensatore. Uno che se fosse vissuto all’epoca dell’Inquisizione sarebbe stato mandato al rogo, non dai suoi nemici ma dalle gerarchie dello stesso mondo al quale appartiene e in cui crede (e continua a credere) con una fede incrollabile. E’ un osservatorio critico vivente, per un lungo tempo che arriva ai nostri giorni. Ma non resta allo sbando. E’ uno dei pochi casi di comunisti che non si vergognano di dichiarare ancora di esserlo. E si interroga.