Gli “omofobi” vivono 2,5 anni in meno. L’ultima balla

Creato il 05 marzo 2014 da Giulianoguzzo @GiulianoGuzzo

«Non mi fido molto delle statistiche – ha detto Charles Bukowski (1920-1994) – perché un uomo con la testa nel forno acceso e i piedi nel congelatore statisticamente ha una temperatura media». La geniale ironia dello scrittore statunitense, oltre a strapparci un sorriso, contiene un apprezzabile invito alla prudenza che dobbiamo fare nostro in particolare quando – come spesso accade – veniamo messi al corrente degli esiti di ricerche e studi che, se presentati in modo semplicistico generano molta più confusione della chiarezza che mirano a fare.

Un caso emblematico concerne la voce secondo cui gli “omofobi” sarebbero malati e, in quanto tali, sconterebbero un’aspettativa di vita inferiore, rispetto agli altri, di 2,5 anni. Partendo dalla presunta natura patologica dell’omofobia, non possiamo che ripetere quanto già chiarito da altri, e cioè che scientificamente l’omofobia non è fobia, semmai atteggiamento, e che gran parte delle misurazioni volte a quantificarla – a partire dall’Ioa, Index of Attitudes towards Homosexuals – finiscono col bollare come “molto omofobo” chiunque, incluso il più neutro, non sia entusiasta dall’omosessualità [1].

Le perplessità non scemano, anzi, se si passa ad esaminare il fatto secondo cui gli “omofobi” vivrebbero meno degli altri. Infatti – posto che se fosse vero, usando gli stessi argomenti della propaganda omosessualista potremmo dire che gli “omofobi” vivono meno perché sono a loro volta vittima di pregiudizi altrui e che quindi meriterebbero una specifica normativa a loro tutela, una legge contro l’omofobo-fobia – non possiamo, con tutto il rispetto per la professionalità di chi l’ha eseguito, esimerci dal manifestare più di qualche riserva sullo studio in questione [2].

Non tanto su come sono stati adoperati metodologicamente i dati, bensì su sono stati assemblati. Il pregiudizio anti-gay, il vero cuore della ricerca, è stato infatti ricavato dall’analisi delle risposte a quattro quesiti francamente poco significativi. In sintesi, è stato sondato fra i soggetti del campione considerato il loro parere sull’acquisto, da parte di una biblioteca pubblica, di un libro pro-gay, il loro pensiero sui rapporti intimi fra persone dello stesso sesso e sul riconoscimento del diritto ad insegnare all’università e a tenere un discorso pubblico alla comunità in capo ad una persona che “ammette” di essere omosessuale.

Ora, a parte che utilizzare in simili domande il verbo “ammettere” (to admit) in relazione all’omosessualità tradisce chiari pregiudizi da parte di coloro che le hanno preparate – la tendenza sessuale non può essere “ammessa”, non è una colpa morale (tale può divenire a seconda di come viene vissuta) né un reato, ma, se proprio lo si vuole, viene dichiarata – il limite di questo genere di quesiti sta anzitutto nel loro prevedere, in tre casi su quattro, solo una risposta (si/no), cosa che non consente di graduare – processo a sua volta non banale, sotto il profilo metodologico [3] – l’eventuale effetto sulla mortalità da parte degli atteggiamenti anti gay, e poi nel modo, a dir poco semplicistico, con cui sono stati formulati.

Un esempio lampante è quello, già citato, del parere circa l’acquisto di un testo da parte di una biblioteca pubblica. Si può davvero prendere sul serio simili premesse come espressione di discriminazioni? E’ forse un pericoloso “omofobo” un padre che non gioisce all’idea che nella biblioteca comunale, domani, suo figlio possa ritrovarsi in mano, per esempio, il libro [4] dove Mario Mieli (1952-1983), padre del Movimento di Liberazione Omosessuale italiano, scrive che si possono «definire psiconevrotici tutti gli eterosessuali che negano la presenza in sé di impulsi omosessuali» (p. 44) e che «l’eterosessualità si basa sulla negazione della donna» (p. 157)?

Anche sondare i giudizi sui rapporti sessuali fra persone dello stesso sesso, infine, non sembra un buon indice per stanare l’omofobia dal momento che la disapprovazione morale, per i cristiani osservanti, non nasce da un’ostilità che, fra l’altro, lo stesso Catechismo della Chiesa Cattolica condanna con indiscutibile chiarezza [5], bensì dall’obbedienza dovuta ai Comandamenti. O forse vogliamo sostenere che il buon cristiano, in quanto tale, è automaticamente un “omofobo” da incarcerare o da sottoporre a processi rieducativi? Francamente è un dubbio che questo studio non solo non risolve, ma alimenta.

Prima di concludere, non possiamo non soffermarci sulla lettura semplicistica – imputabile non tanto, in questo caso, agli autori della ricerca, bensì alla modalità con la quale i risultati ottenuti sono stati e vengono presentati sui mezzi di comunicazione – secondo cui, come detto in apertura, gli “omofobi” vivono meno perché l’omofobia è una malattia. Ebbene, questo modo di ragionare, oltre ad essere ampiamente discutibile e privo di fondamento per le ragioni sopra accennate, risulta estremamente pericoloso.

Infatti, stando a quanto pubblicato non da qualche bollettino parrocchiale ma dalla stessa rivista considerata – l’American Journal of Public Health – e senza guardare a realtà dove dominerebbe il pregiudizio bensì ad un Paese estremamente gay-friendly come la Danimarca, il primo al mondo ad aver riconosciuto alle coppie omosessuali «tutti i diritti ed i doveri in merito ad eredità, donazioni, pensioni, tasse, obbligo di assistenza reciproca» [6], scopriamo come fra le persone gay sposate – e quindi, si suppone, piu felici di altre – confrontate con gli eterosessuali sposati, si registrino tassi di mortalità più alti [7].

Orbene, se ragionassimo con la medesima, incauta voglia di semplificare, dovremmo concludere che l’omosessualità uccide o che l’omosessualità è una malattia perché fa vivere meno anche si è affettivamente appagati. Dato però che vogliamo evitare di far circolare tesi tanto assurde e che potrebbero, queste sì, generare pericolosi pregiudizi, ci guardiamo bene dal trarre simili conclusioni e sconsigliamo a chiunque di farlo. E bello sarebbe che facessero altrettanto anche coloro i quali, pur di denunciare la pericolosità sociale di una presunta omofobia, continuano a raccontare vere balle.

Note:[1] Cfr. Wright R.H. – Cummings N.A. Destructive Trends in Mental Health. The well-intentioned path to harm, Routledge, New York 2005, p. 72; [2] Cfr. Hatzenbuehler M.L. – Bellatorre A. –Muennig P. (2014) Anti-Gay Prejudice and All-Cause Mortality Among Heterosexuals in the United States. «American Journal of Public Health»; Vol. 104(2):332-337; [3] Cfr. Zammuner V.L. Tecniche del questionario e dell’intervista. Processi cognitivi e sociali, Libreria Editrice Università di Padova, Padova 1994, pp. 144-163; [4] Cfr. Mieli M. Elementi di critica omosessuale (a cura di) Rossi Barilli G. – Mieli P. Feltrinelli (nuova edizione ampliata), Milano 2002; [5] Il cattolico è infatti tenuto a guardare le persone omosessuali «con rispetto» evitando nel modo più assoluto «ogni marchio di ingiusta discriminazione» Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 2358; [6] Cfr. Fatidico sì per le coppie gay. «La Repubblica», 3/10/1989, p. 23; [7] Cfr. Frisch M. – Brønnum-Hansen H. (2009) Mortality Among Men and Women in Same-Sex Marriage: A National Cohort Study of 8333 Danes. «American Journal of Public Health»; Vol. 99(1): 133–137.



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