“America Latina: tentativi di unità” è stato il titolo della conferenza organizzata dall’IsAG e svoltasi il 21 gennaio presso la Sale delle Colonne di Palazzo Marini, Camera dei Deputati, in Roma. Il sito di “Geopolitica” ospiterà, a partire da oggi, la pubblicazione degli atti del convegno. Si comincia con l’intervento di Daniele Scalea, neo-direttore generale dell’IsAG e condirettore di “Geopolitica”, che ha preso parte al secondo panel, “L’altra relazione transatlantica: l’Italia e l’America Latina”, dedicandosi al tema degli oriundi.
Lo storico australiano Richard J.B. Bosworth ha affermato che il popolo italiano, nei primi decenni post-unitari, conducesse una propria politica estera, indipendente da quella dello Stato, tramite l’emigrazione. A suo dire, l’emigrazione avrebbe potuto fondare per l’Italia una potenza più duratura di quella della Gran Bretagna, della Francia o di altri paesi colonialisti. In altre parole, dare all’Italia un impero coloniale di fatto e duraturo, senza bisogno di conquistarlo con le armi, come avrebbe faticosamente e fuggevolmente fatto più tardi. La considerazione di Bosworth è forse troppo enfatica, ma poggia su solide basi.
L’emigrazione italiana fu diversa da quella britannica, che avvenne nel quadro d’una dominazione coloniale, ma più simile agli attuali flussi dall’Africa, dalla Cina o dall’Europa Orientale. Questo tipo d’emigrazione inizialmente diffonde pregiudizi e ostilità, ma successivamente crea comunità nazionali ben integrate nella società ospite e capaci d’influenzarla. Tra i vantaggi possibili v’è la presenza d’una comunità favorevole ai buoni rapporti con l’Italia, la diffusione della cultura italiana, gli acquisti “della memoria” di prodotti italiani.
I governi italiani hanno tuttavia ignorato gli emigrati fino agli anni ’70 dell’Ottocento. Allora Francesco Crispi, capo del Governo e ministro degli Esteri, e Carlo Dossi (noto soprattutto come letterato, ma che fu anche il capo di Gabinetto agli Esteri di Crispi), invitarono i diplomatici a studiare, tutelare e dialogare con le colonie all’estero per tenerle legate alla madrepatria. I due garantirono inoltre finanziamenti ad associazioni e scuole italiane all’estero: nello stesso periodo, anche se su iniziativa privata, nacque la Società Dante Alighieri.
La linea di Crispi e Dossi non fu tuttavia seguita dai successori. Solo nel 1920 il ministro degli Esteri Sforza creò una Direzione Generale delle Scuole all’Estero, cui Mussolini aggiunse nel 1927 una Direzione Generale per gli Italiani all’Estero e nel 1928 un Comitato per l’Espansione della Cultura all’Estero. Parallelamente all’attività statale, si muoveva però nel Ventennio anche l’organizzazione estera del Partito Fascista: ciò comportava ideologizzazione e faziosità, generando divisioni in seno alle comunità italiane e tra le comunità e le società indigene.
Nel secondo dopoguerra la Direzione Generale per gli Italiani all’Estero divenne “per l’Emigrazione”, e su iniziativa di Nenni nacque una Direzione Generale delle Relazioni Culturali. Si trattava di una mossa di soft power compiuta ben prima che Joseph Nye coniasse il termine: l’idea era che, tramite la diffusione della cultura italiana, si potesse rilegittimare internazionalmente il paese dopo la sconfitta nella Seconda Guerra Mondiale.
Dagli anni ’70, momento in cui si ha l’inversione del saldo migratorio, è calata l’attenzione per gli emigrati. Un rinnovato interesse si è verificato solo dopo il 2000, con la concessione del voto per gl’italiani all’estero e l’organizzazione di numerose conferenze internazionali di contatto con le comunità di espatriati. Tuttavia l’interesse appare rivolto – a torto o a ragione – esclusivamente agl’italiani all’estero e non agli oriundi, ossia le persone d’origine italiana. Le pure cifre quantitative invitano però a riflettere. Visto che si sta parlando di America Latina, prendiamo il caso dell’Argentina. Colà i cittadini italiani residenti sono 665.000; non pochi, ma gli oriundi (ossia gli argentini con almeno un antenato italiano) sono tra i 20 e i 25 milioni, ossia oltre la metà della popolazione di quel paese (sebbene gli italofoni siano al massimo un milione e mezzo). Di origini italiane sono stati sei presidenti argentini (sette se si accetta la teoria che vorrebbe Peron di origine sarda), diversi generali della dittatura (su tutti Galtieri e Bignone), artisti (ad esempio Astor Piazzolla), sportivi (oggi il più famoso è senz’altro Lionel Messi, d’origini venete).
Superiore, in termini assoluti e non relativi, alla comunità italiana in Argentina è solo quella in Brasile. Gli oriundi brasiliani sono tra i 25 e i 30 milioni, con concentrazioni in alcune regioni: a Sao Paulo sono il 25% della popolazione totale (il 50% nella città), a Paranà il 30%, a Santa Caterina il 45%, a Espirito Santo il 50%. Circa quattro milioni sono gl’italofoni. Tra i brasiliani d’origine italiana s’annoverano tre presidenti e numerosi sportivi (tra cui Ayrton Senna).
Le domande che a mio avviso meritano d’essere poste, e di trovare una risposta attenta e ragionata da parte nostra, sono dunque le seguenti: quanto sono ancora sentiti l’italianità e l’interesse per l’Italia tra oriundi il cui legame col nostro paese risale a diverse generazioni fa? In che misura questi oriundi alimentano legami economici e commerciali con l’Italia? E come gli oriundi dell’America Latina possono (se possono) inserirsi nella politica estera italiana?